Ho letto che ognuno di noi su questo pianeta è separato dagli altri solo da sei persone. Sei gradi di separazione tra noi e tutti gli altri su questo pianeta: il presidente degli Stati Uniti, un gondoliere veneziano, chiunque, insomma. Io lo trovo un pensiero confortante, che siamo così vicini, ma trovo anche che è un po' una tortura cinese essere così vicini ma dover trovare sei persone giuste per il collegamento... Siamo tutti come delle porte aperte su altri mondi. Sei gradi di separazione fra noi e chiunque altro su questo pianeta”.

 

Il sistema formulato da Frigyes Karinty in un racconto omonimo nel 1929 sostiene un’ipotesi semiotica e sociologica, secondo la quale ogni persona al mondo può essere collegata a chiunque altra attraverso una connessione di conoscenze e relazioni formata da non più di cinque intermediari. Stanley Milgram conferma tale tesi, con un famoso esperimento sociale, nel 1967, una sorta di prova empirica sotto forma di “teoria del mondo piccolo”.

 

Il brano riportato in incipit è tratto dal film di Fred Schepisi, appunto “6 Gradi di Separazione”, ispirato al racconto di Karinty e agli studi di Milgram, ma noi contestualmente, ritenendoci tutti “come delle porte aperte su altri mondi interagenti”, potremo oggi definire lo strumento Internet come il miglior alleato per accedervi senza neanche scomodarsi dalla scrivania, dal letto, dalla cucina di casa propria o ovunque noi ci trovassimo, sebbene i sei gradi di separazione sembrerebbero addirittura scesi a quattro, secondo un nuovo test realizzato presso la Statale di Milano da un gruppo d’informatici in collaborazione con altri due di  Zuckerberg.

 

Ben oltre i confini stabiliti da Milgram, utilizzando algoritmi sviluppati in laboratorio in un esperimento su scala planetaria, i gradi di separazione su tutte le coppie d’individui del maggior social network si restringono fino a 3.74, quindi non più di quattro. Milgram si era avvalso d’un centinaio di coppie possibili, i ricercatori della Statale di Milano, di 65 miliardi, pressappoco il numero corrente “d’amicizie” su Facebook.

 

Nel 1993 siamo alle origini della rete. Una vignetta di Pete Steiner apparsa sul New Yorker, diventata poi tanto celebre da essere immortalata in un’intera pagina di Wikipedia, mostra un cane seduto dinanzi a un computer con un sottotitolo per lo meno lungimirante: “Su Internet, nessuno sa che sei un cane”. E all’espediente del cane, si aggiunge, vent’anni dopo, il riscontro del suo proprietario e un’ulteriore didascalia aggiunge: “Ti ricordi quando su Internet nessuno sapeva chi fossi?”

 

Un giornalista della BBC afferma che nell’uso smodato dei social network abbiamo “un modo per riprogettare le nostre identità, scoprire cosa significa essere qualcun altro, diverso dal nostro io reale, ma non solo; attraverso il meccanismo dei mi piace (vedi Facebook), otteniamo riscontri istantanei (transitori, il più delle volte) per qualsiasi piccolo aggiustamento identitario ci venga in mente di fare”.

 

Le opinioni altrui inondano la nostra vita, come mai successo prima. Diventiamo “oggetti da quotazioni” attraverso valutazione o svalutazioni per una massa indistinta d’estranei. E lo sa bene chiunque sia stato oggetto di bullismo, quanto il giudizio pubblico, che comprenda accettazione, esaltazione, derisione o disprezzo sia esercitato in modo ampio e potente.

 

L’ansia generata è enorme, compresa quella da “prestazione”; il confronto incessante può suscitare sensi d’inferiorità o superiorità. Certo, una connessione generalizzata può risultare stimolante e utile, ma allo stesso modo converrebbe tenere ben presente il valore intrinseco d’ogni “utente”, non lasciandosi trascinare nel tentativo di paragonarci agli altri, estromettendo ogni suggestione da noi stessi. In altre parole, tenendo stretta un’identità, un proprio stile di vita non esclusivamente votato al “virtuale”.

 

Dovremo imparare a disconnetterci per un tempo relativamente lungo o quando lo riteniamo necessario, perché (come affermano le ultime ricerche), essere perennemente connessi o sotto i riflettori dei social, crea infelicità. Nell’illusoria fuga dalla solitudine contemporanea, se da una parte la rete connette tra loro le persone, dall’altra, simultaneamente, disconnette le azioni nell’effetto di lunga durata, impone reazioni istantanee senza però ragionare sulle conseguenze.

 

L’acronimo anglosassone Fomo (Fear of missing out – paura di essere tagliati fuori), descrive l’ansietà sociale cui più o meno soffre ogni utente di Facebook, in modo anche drammatico. Preoccupandosi di ciò che pensano o fanno gli altri allontana drasticamente dalla propria vita, fa perdere il senso di sé. Esistono persone che fuori da Facebook non sanno chi sono, perdono spessore insieme a una visuale “terrena”, per così dire. Paradossalmente, si tratta di coloro che riscuotono maggior successo, in termini numerici per “amicizie” e “likes”: la conservazione del sé virtuale sembrerebbe avviata a farsi impegno a tempo pieno.

 

Come non scomodare Zygmunt Bauman, il compianto filosofo della modernità liquida, ultima figura di riferimento dell’attuale sociologia. Le sue analisi sul discredito della politica e la disuguaglianza che si accresce invece di diminuire, convergono nella visione inerente alla rivoluzione digitale. In una società votata all’individualismo, la questione identitaria si trasforma in qualcosa cui si è dato un obbligo, avere la tua “comunità”, ma ciò che del concetto comunitario fa il social network, è un sostituto, un rimpiazzo. S’appartiene alla rete, dove è possibile aggiungere o eliminare, controllare le persone cui siamo in qualche modo legati, non a una “comunità”.

 

Con un dato inconfutabile da rimarcare: che comunicazione reale non è parlare con persone che la pensano come te, ma affrontare le difficoltà e il conflitto per coinvolgere due o più parti. Questo succede ogni qualvolta interagiamo con gli altri, ma in modo diretto, senza un filtro virtuale.

 

“I social network non insegnano il dialogo, perché è così facile evitare le polemiche… Molte persone li usano non per unire o per ampliare i propri orizzonti, ma piuttosto, per bloccarli in quelle che chiamo zone di comfort, dove l’unico suono che sentono è l’eco della propria voce, dove tutto quello che vedono sono i riflessi del proprio volto. Le reti sono molto utili, danno servizi piacevoli, però sono trappole …”.

 

Certo la rete è libera, vi può confluire chiunque, ma sulla comunità reale si può contare come su un vero amico, c’è affidabilità anche se è più vincolante. In rete, per uscire da qualsivoglia relazione, basta spingere il tasto delete. Però, afferma Bauman: “Pare che siamo tutti d’accordo sul fatto che tra l’abbracciare qualcuno e pokarlo (ovvero mandare un poke, taggarlo ndr), ci sia differenza”.

 

In sostanza, Facebook e gli altri social network hanno stretto un patto fra gli utenti e la modernità: la vita è più facile, via ogni sforzo in termini d’impegno e acquisizioni, via le sfide, i dubbi, le insicurezze. Conoscere nuovi “amici” è diventato incredibilmente facile. Con la stessa, disarmante facilità siamo in grado d’interrompere relazioni e amicizie, se sopraggiunge la noia o qualcuno non soddisfa le nostre aspettative, oppure bastano disaccordo o il minimo segno di un conflitto, invece di fare tentativi estenuanti per riparare il rapporto, si cancella il nome senza sentire neanche il bisogno di scusarsi. Ecco, nella vita reale è molto più complicato, in primis perché la gente ha possibilità di guardarsi negli occhi.

 

Nel film 6 Gradi di Separazione, il lungo monologo di Paul (impersonato dall’attore Will Smith), esprime tutto il caos e la consapevolezza della nostra condizione: “Oggi l'immaginazione ha cessato di rappresentare il nostro collegamento, il collegamento più profondo fra la vita interiore e il mondo che è al di fuori di noi, in cui viviamo tutti. Perché l'immaginazione è diventata un sinonimo di stile. Ritengo che l'immaginazione sia il passaporto che noi ci costruiamo per entrare nel mondo della realtà. Credo che l'immaginazione sia solo un’altra via per definire l'unicità d’ognuno. Jung dice che il peccato più grave è la mancanza di coscienza; II giovane Holden dice - Quello che mi fa più paura è la faccia dell'altro. Non sarebbe tanto male se potessimo essere tutti e due bendati - Molte volte le facce che abbiamo di fronte non sono quelle degli altri, ma le nostre. Ed è la peggiore forma di vigliaccheria, questo avere così tanta paura di se stessi da coprirsi gli occhi piuttosto che affrontarsi. Guardarsi in faccia, è diventata la cosa più difficile…”. 

 

 

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