La guerra, oltre a seminare morte e distruzione, paralizza il pensiero. Non solo sul versante emotivo, e cioè le reazioni che tutti indistintamente abbiamo vedendo immagini strazianti o sentendo notizie raggelanti, ma anche riguardo la difficoltà nel far emergere un’analisi che vada oltre la scontata condanna e la demonizzazione del cattivo di turno. Ormai, qualsiasi considerazione commento o finanche un semplice interrogativo sul conflitto bellico in corso, devono essere preceduti da una sorta di professione di fede, una excusatio non petita che escluda a priori la accusatio manifesta e una possibile “eresia”. Pena la immediata censura, o meglio l’ostracismo da parte dei numerosi Catoni presenti sugli schermi televisivi sulle prime pagine dei giornali e nella galassia social.

Più precisamente, c’è il rischio reale di imbattersi in una vera e propria scomunica; il riferimento a una dimensione religiosa, e contemporaneamente a una inevitabile modalità stigmatizzante, segnala da subito una delle enormi contraddizioni che riscontriamo con sempre maggiore assiduità. Vale a dire, l’esortazione reiterata e inascoltata di Papa Francesco a rafforzare la diplomazia in luogo della istigazione all’invio massiccio di armi a una delle parti contendenti.

Aggredita, invasa, occupata come nessuno si sogna di eccepire; altresì descritta come se non avesse una propria storia antecedente all’alba del 24 febbraio 2022. Una data che al momento marca “solo” un tragico passaggio temporale, ma è molto probabile assuma in futuro un significato, storico economico politico e culturale, di indiscutibile rilevanza.

In un futuro, che ci auguriamo il più prossimo possibile, in cui non parlino i carrarmati ma prenda voce la coscienza dei popoli. In cui abbiano la priorità assoluta gli interessi della maggioranza e non le convenienze di un oligopolio.

Ci rendiamo conto, che a tutt’oggi la sola formulazione di un tale auspicio sia più utopico del raggiungimento della pace. I giorni passano, e la distanza da un pur timido segnale di distensione, è più grande di quella che ci separa da latitudini che forse pensavamo fossero più vicine, più aderenti alla nostra concezione di convivenza pacifica. Parole vuote, come la memoria dell’Occidente rispetto alle proprie responsabilità per aver elevato la pace dalle rovine del Novecento salvo poi impallinarla di nuovo.

A freddo, o con calcolato metodo. Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen, per non parlare della “eterna” questione mediorientale che altro non è che la sistematica prevaricazione dello Stato d’Israele ai danni della Palestina. E ancora, i crimini commessi in Africa con il rovesciamento violento di governi poco graditi da “ex” potenze coloniali a vantaggio di altri regimi molto più sanguinari ma conformi al loro standard di benessere e di supremazia.

In America Latina, lo status di “giardino di casa” è stato continuamente giustificato e perseguito dalla Casa Bianca modificando le tecniche di intervento e ingerenza ma conservando la stessa vocazione predatoria del secolo passato, quando coccolava le giunte militari e i golpe che le generavano, in funzione anticomunista.

Argentina, Cile, Bolivia, Uruguay, Paraguay, Nicaragua, Brasile, El Salvador, Guatemala, Cuba, hanno saggiato il polso fermo della democrazia neoliberale, quando questa viene messa in discussione, con un saldo di centinaia di migliaia di vittime. Pertanto, il concetto stesso di libertà ha subito diversi scossoni da questa parte del pianeta, dove l’economia di mercato è più importante dei diritti inalienabili dell’essere umano. O che tali si vorrebbero ma che in realtà non lo sono. Sanità, istruzione, sociale, lavoro, mobilità, ambiente, sono variabili del profitto, risorse preziose da estirpare dal pubblico per seminarle nelle fruttifere terre del privato.

Le esperienze al di là di quella che una volta era la linea di demarcazione tra due blocchi contrapposti, tra un mondo e l’altro, non sono certo tutte entusiasmanti e ammirevoli. Ne sono stati sottolineati limiti errori e nefandezze, da sempre, e con il sostegno della Storia, non con il beneficio della propaganda. La casualità di essere nati in un Nord autoreferenziale si trasforma così in privilegio, a detrimento di un Sud eternamente periferico, pertanto condannato a divinis alla spoliazione e allo sfruttamento.

In questa particolare geografia del dominio, rientra anche l’ineluttabile allargamento della NATO a Est, costruito sul certosino lavoro di assimilazione dei paesi che appartenevano alla galassia sovietica, e sul discredito di potenze commerciali emergenti come la Cina. Inizialmente silenziosa, ha preso le distanze dalla decisione del Cremlino di muovere le truppe verso Kiev, per poi dichiarare con fermezza quanta irresponsabilità ci fosse nel collocare basi militari ai confini russi e utilizzare l’Ucraina per destabilizzare Putin.

Un progetto nato dal 2014 con la rivolta della cosiddetta Euromaidan, in pieno stile imperialista. I fiumi di denaro che da Washington scorrevano verso Kiev, hanno armato un esercito che ostentava svastiche e simboli del passato collaborazionismo nazista, alimentando un (anacronistico) sentimento antisovietico. Si potrà legittimamente obiettare che le colonne militari in viaggio verso le frontiere ucraine non sono l’Armata Rossa e non stanno liberando Auschwitz, evento storico che per altro rappresenta un sacrificio costato all’URSS più di venti milioni di vittime nella lotta al nazismo.

Un aspetto spesso deliberatamente dimenticato, subordinandolo al ruolo esclusivo ed egemonizzante delle Forze Alleate. Così come spesso si dimentica, tornando alla drammatica attualità, una guerra sporca e crudele che dura da otto anni e che ha causato quindicimila morti. Di serie B, riposte in un comodo oblio. Nel Donbass, all’indomani della destituzione di Janukovich, e del referendum che proclamava la indipendenza dal governo ucraino, si è scatenata una caccia al “filorusso” e al comunista, condotta dal Battaglione Azov e dal Pravy Sektor, formazioni di inequivoca ispirazione nazista. E che affascinano la sinistra salottiera nostrana che li innalza a esempio moderno di Resistenza, senza neanche un fremito di vergogna.

D’altronde, nel conflitto parallelo che si combatte sui mezzi d’informazione, non c’è spazio per il dubbio e per una posizione equilibrata della tragedia in atto; si preferisce abbracciare una visione autoassolutoria, appiattita su interessi altrui per alleggerire il peso di invocare la pace con il ricorso alle armi. Da noi inviate, in sfregio a una Costituzione che agitiamo opportunisticamente riducendola da bandiera a canovaccio.

Alle frontiere dell’Europa si consumano i crimini di una dignità lacerata da guerre nascoste e rimosse, precipitate nel buio delle nostre coscienze. Donne uomini e bambini che non trovano accoglienza per affinità religiosa e somatica, ma filo spinato e idranti che li respingono. Li rimandano oltre una Cortina di Ferro rinnovata e invisibile, o utilizzati come moneta di scambio da dittatori che in fondo così tirannici non lo sono, se massacrano popoli che destano poca attenzione. Appartengono a un emisfero minore; sono una umanità minore. Qui, nel cuore dell’Occidente, abbiamo smarrito il senso profondo della Solidarietà e della Memoria, e non sappiamo se un altro mondo è ancora possibile. Di sicuro, un altro mondo è sconosciuto.

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