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di Carlo Musilli
Se nella tragedia greca le colpe dei padri ricadevano sui figli, nell’Italia contemporanea il potere dei figli dà una mano alle banche dei padri. Dopo il caso Boschi-Banca Etruria, a far discutere è il collegamento fra la riforma degli istituti di credito cooperativo e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il renzianissimo Luca Lotti.
Iniziamo dal principio: cosa sono le Bcc e in cosa si distinguono dalle altre banche? La caratteristica più importante del credito cooperativo è la mutualità. L'attività di queste banche non persegue l'obiettivo del profitto, ma del vantaggio: innanzitutto quello dei soci, cui le Bcc concedono la maggior parte del credito, poi quello della comunità locale e del territorio in cui gli istituti svolgono la loro attività.
Le banche di credito cooperativo devono destinare almeno il 70% degli utili netti annuali a riserva legale e il 3% dei profitti deve essere corrisposto ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. Ciò che resta degli utili dopo la distribuzione ai soci deve essere destinato a fini di beneficenza o mutualità.
Mercoledì 10 febbraio il Consiglio dei ministri ha varato un decreto sulle banche che contiene, fra l’altro, la riforma delle Bcc (il testo è stato approvato “salvo intese”, il che significa che potrà essere modificato ancora dall’Esecutivo prima di arrivare in Parlamento). Il provvedimento impone a questi istituti - in tutto 376 - di aderire a un unico gruppo bancario cooperativo guidato da una Spa con un patrimonio non inferiore al miliardo di euro. La maggioranza del capitale della holding sarà in mano alle banche del gruppo, mentre il resto potrà entrare nei portafogli di soggetti omologhi (gruppi cooperativi bancari europei o fondazioni) oppure essere quotato in Borsa.
L’obbligo di adesione al gruppo unico, però, non vale per tutte le Bcc: potranno scegliere di sottrarsi a questa regola le banche che hanno riserve per almeno 200 milioni di euro e accetteranno di versare su queste un'imposta straordinaria del 20%. Gli istituti che seguiranno questa strada, tuttavia, perderanno lo status di Bcc e dovranno trasformarsi in Spa (diventando perciò facilmente scalabili, viste le dimensioni di queste banche), altrimenti scatterà la liquidazione.
Il punto più controverso della riforma è proprio questo paracadute concesso alle poche Bcc che avrebbero riserve sufficienti per sfilarsi (“una decina” secondo il ministro Padoan, 14 stando ai dati di Mediobanca riferiti al 2014). Federcasse, l’associazione degli istituti di credito cooperativo, sostiene che questa norma creerebbe disparità di trattamento tra le banche, favorendo la frammentazione bancaria e indebolendo la coerenza cooperativa. Inoltre, c’è il rischio che sia incostituzionale.
In gioco ci sono infatti le cosiddette “riserve indivisibili”, accumulate dalle Bcc in regime di esenzione d’imposta per svolgere attività mutualistica, che in base all’articolo 45 della Costituzione italiana non può avere “fini di speculazione privata”. L’obiezione, perciò, è che dare questi soldi a una Spa dietro pagamento del 20% significherebbe privatizzare un bene comune.
“A me sembra una riforma che aiuta a consolidare il sistema delle Bcc”, replica il sottosegretario Lotti, considerato l’artefice dell’inserimento nel decreto della norma della discordia, peraltro non prevista nella versione originaria della riforma - su cui le Bcc avevano lavorato per mesi con il Tesoro e Bankitalia - e invisa a mezzo governo, dai ministri Alfano e Galletti alla minoranza Pd, da Scelta Civica ad Area popolare, più buona parte delle opposizioni. Il problema è che, in questa vicenda, Lotti non è proprio super partes. L’accusa mossa al sottosegretario, e di riflesso al Premier, è di voler favorire gli istituti toscani, i più insofferenti all’idea di aggregarsi alla holding unica (perché puntano a costituire un polo bancario regionale). Su tutte Chianti Banca e, soprattutto, la Bcc di Cambiano, che ha sede a Castelfiorentino, piccolo Comune in provincia di Firenze.
Di questo istituto è dirigente Marco Lotti, padre del sottosegretario, e presidente Paolo Regini, renziano della prima ora, già sindaco Ds di Castelfiorentino dal 1990 al 1999 e tuttora marito della senatrice Pd Laura Cantini (a sua volta sindaco di Castefiorentino dal 1999 al 2009, oltreché vicepresidente della Provincia di Firenze).
Non solo. Nel 2009 era stata proprio la Bcc di Cambiano a concedere a Renzi un mutuo di 72mila euro per la campagna elettorale che lo ha portato a diventare sindaco di Firenze e nel 2012 lo stesso istituto si è occupato della raccolta fondi per la candidatura dell’attuale capo del governo alle primarie del Pd. Una strategia azzeccata, a quanto pare.
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di Carlo Musilli
La parte peggiore della tempesta è forse alle spalle, ma il cielo sopra le banche italiane non è ancora sereno. Tutt’altro. Al di là del rimbalzo di venerdì scorso a Piazza Affari, trainato in larga misura dal riaccendersi del risiko sulle popolari - in molti considerano ormai scontata la fusione fra Banco Popolare e Bpm -, per diversi istituti del nostro Paese il riscatto è ancora lontano. Secondo i dati di Borsa Italiana, nella classifica dei 10 peggiori titoli da inizio anno, la metà sono bancari: Mps (-46,54%), Carige (-43,09%), Banco Popolare (-33,80%), Unicredit (-31,24%) e Ubi (-31,12%).
Come mai, visto che sia dalla Bce sia dalla Banca d’Italia sono arrivate rassicurazioni sui conti del nostro sistema creditizio? Si sbaglia Draghi, quando dice che “le banche italiane hanno accantonamenti simili a quelli dell'area euro e hanno anche un alto livello di garanzie e collaterali”? Oppure sbaglia Visco, secondo cui “le banche italiane sono ben patrimonializzate” e “i crediti deteriorati sono ampiamente coperti da svalutazioni e garanzie”? In realtà non sbaglia nessuno: neanche i mercati.
La spiegazione più ovvia è che, in larga parte, i crolli cui abbiamo assistito nelle ultime settimane siano frutto della speculazione dei grandi operatori, evidentemente orientata al ribasso. Lo strumento principe per mettere in pratica questo genere di strategia è la vendita allo scoperto (o short selling), che consiste nel vendere titoli non posseduti direttamente, impegnandosi ad acquistarli dopo un determinato periodo di tempo, in genere assai breve. Il margine di guadagno sussiste nel momento in cui il prezzo di vendita (oggi) è superiore a quello di acquisto (domani), per cui si parla di speculazione al ribasso. In sostanza, si scommette sul fatto che un titolo perderà valore. A volte, però, l’investitore che vende allo scoperto ha una potenza di fuoco e una reputazione tale da orientare il mercato, per cui l’esito della scommessa è in qualche misura condizionato.
Un investitore di questo calibro è George Soros, che a inizio gennaio ha paragonato le turbolenze finanziare globali, esacerbate dai crolli dei mercati cinesi, “alla crisi che abbiamo vissuto nel 2008”. Chi conosce un po’ le regole del gioco sospetta fortemente che il buon Soros - probabilmente uno degli speculatori più noti al mondo, senz’altro uno dei più spregiudicati - abbia un interesse preciso ogni volta che semina allarmismo a piene mani. Fece la stessa cosa nel settembre del 2011, quando parlò della crisi economica dell’Eurozona, e nel 1992, quando contribuì a portare la Lira sull’orlo del baratro.
Ora, nemmeno alla più nichilista delle cassandre verrebbe in mente di paragonare la congiuntura attuale a quella del 2008, per cui sembra lecito dedurre che il caro vecchio George abbia deciso di scommettere sui ribassi. Forse ha dettato la linea, forse ha scoperto carte che erano già in mano anche ad altri giocatori, fatto sta che in questo strano 2016 i mercati internazionali sembrano seguire la via indicata dal finanziere di Budapest.
Intendiamoci, i segnali negativi non mancano, dal crollo senza fine del prezzo del petrolio al rischio geopolitico legato al fronte mediorientale. Eppure, nella realtà dei conti spesso non esistono motivazioni valide per giustificare l’accanimento reiterato contro i medesimi titoli. Nel caso delle banche italiane, per qualche giorno si è provato a dire che l’ondata di vendite era legata a un’indagine Bce sui crediti deteriorati dei nostri istituti (ovvero quelli a rischio e quelli che certamente non saranno restituiti).In effetti, le sofferenze sono un problema reale per il nostro sistema bancario e non è ancora chiaro quanto le nuove bad bank “light” concordate dal Tesoro con Bruxelles saranno in grado di aiutare. Tuttavia, non c’è alcuna catastrofe alle porte. Lo stesso Mario Draghi ha chiarito che l’operazione della Bce è del tutto ordinaria: non coinvolge solo gli istituti del nostro Paese e soprattutto non prelude affatto alla richiesta di ulteriori accantonamenti o di nuovi aumenti di capitale.
Al contrario, a dicembre la Banca centrale europea aveva già condotto un esame piuttosto complesso sulla solidità patrimoniale di vari istituti dell’Eurozona, e tutte le grandi banche italiane erano state promosse, perfino la tanto bersagliata Mps.
In questo scenario, l’ultima conferenza stampa di Draghi a Francoforte è stata particolarmente istruttiva: dopo aver ripetuto più volte che non è suo compito giudicare l’andamento delle Borse, Supermario ha inchiodato tutti affermando che il comportamento dei mercati è “legato a una certa confusione” e che “la migliore risposta alle tensioni è assicurare che il comparto bancario è resistente: tutte le misure prese, sia in Europa che nel mondo, hanno prodotto un settore ben più forte di quanto fosse prima della crisi”. Con buona pace di Soros e di quelli come lui.
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di Carlo Musilli
Il nuovo sport invernale dei mercati europei è il tiro alla banca italiana. Dopo l’ecatombe di lunedì, quando praticamente tutti i titoli degli istituti hanno subito ribassi superiori al 5% a Piazza Affari, ieri l’ondata di vendite ha travolto ancora Monte Paschi (-14,3%), Carige (-11%), Unicredit (-3,4%) e Banco Popolare (-6,3%). Perché mai tanto accanimento?
Non esistono motivazioni plausibili sotto il profilo patrimoniale per giustificare una tempesta di ribassi così improvvisa e generalizzata. E’ vero, i mercati vivono anche - se non soprattutto - di sentimenti irrazionali e reazioni inconsulte, ma quello che è andato in scena a Milano nelle ultime sedute ha i connotati di un attacco speculativo apparecchiato in piena lucidità dai grandi fondi.
Si dice che le vendite a tappeto siano state innescate da una notizia in particolare: l’avvio di una nuova indagine Bce sulle banche italiane per quel che riguarda i cosiddetti crediti deteriorati (non performing loans, in English). Si tratta di tutti quei prestiti la cui riscossione è incerta sia in termini di rispetto delle scadenze sia per l’ammontare dell’esposizione: comprendono sia le sofferenze (che si hanno quando il debitore è insolvente) sia gli incagli (cioè quando il debitore è in difficoltà temporanea).
Proprio le sofferenze sono il tallone d’Achille del sistema bancario italiano. Appena ieri l’Abi ha certificato che la loro somma è tornata a superare i 200 miliardi di euro, pari al 17% del totale dei prestiti concessi dagli istituti di credito. Lo stesso dato in Germania è al 3%, in Francia al 4% e in Spagna al 7%.
Ma basta una verifica della Bce a spiegare il panico che si è scatenato sui mercati? Difficile, se non altro perché il monitoraggio da parte dell’Eurotower era stato annunciato lo scorso 12 gennaio e ieri la stessa Banca Centrale Europea ha ricordato che si tratta di procedure standard. Le ha fatto eco l’Abi, spiegando che “la richiesta rivolta a un campione di banche europee, tra cui anche alcune banche italiane”, rappresenta “un esercizio ordinario di raccolta di informazioni” e dunque “non di un’azione di vigilanza mirata all'adozione di misure specifiche nei confronti di alcune banche”. Anche il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, ha sottolineato che l'attività “della Bce è una delle solite rassegne che periodicamente avviene: non c'è alcun motivo specifico per le vendite” in Borsa.
Non solo: appena un mese fa tutti i più grandi istituti italiani hanno superato l’indagine Srep (Supervisory review and evaluation process), ovvero i test della Bce su capitale, liquidità, governance e modello di business. In particolare, Mediobanca, Intesa Sanpaolo e la Banca Popolare di Milano si sono piazzate in seconda categoria, mentre la maggioranza si è collocata nella terza fascia (è il caso di Unicredit, Ubi, Bper, Carige e perfino Mps, la più bersagliata a Piazza Affari).
A guardare i dati, perciò, sembra proprio che il problema numero uno delle banche italiane non sia di natura contabile, ma politica. L’impressione è che l’Europa utilizzi gli istituti di credito come strumenti per distribuire ricompense e punizioni a figli e figliastri. Lo dimostra, ad esempio, l’incredibile disparità di trattamento in tema di salvataggi.
Il 19 ottobre scorso Bruxelles ha approvato il piano per evitare il crack della tedesca HSH Nordbank, che prevedeva aiuti di Stato. Nemmeno due mesi dopo, però, ha proibito all’Italia di usare il Fondo Interbancario (finanziato dagli istituti, non dai contribuenti) per salvare Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti. Non solo: la Commissione Ue ha minacciato di aprire una procedura d’infrazione contro il nostro Paese per aiuti di Stato e ha di fatto costretto il Governo e Bankitalia ad attivare la risoluzione che ha causato le ormai note perdite ai risparmiatori titolari di bond subordinati delle banche.Un’altra vicenda da ricollegare all’alta tensione fra Roma e Bruxelles è lo psicodramma legato alla bad bank di sistema, la società di matrice pubblica che il governo Renzi vorrebbe creare per gestire, ristrutturare e rivendere i crediti deteriorati delle banche italiane. Ad altri Paesi europei, come la Spagna, è stato concesso di utilizzare questo strumento: l’Italia, invece, è in trattative ormai da mesi e non riesce a superare il no della commissaria Margrethe Verstagen, dietro cui c’è la secca opposizione tedesca.
In questa partita, il bail in poteva essere una moneta di scambio efficace. Il nostro Paese avrebbe potuto forse chiedere il via libera alla bad bank in cambio dell’approvazione in Parlamento delle nuove norme sui salvataggi bancari dall’interno (che prevedono il coinvolgimento di azionisti, obbligazionisti e depositi superiori ai 100mila euro). Invece Camera e Senato hanno trasformato il bail in legge senza battere ciglio e solo dopo al Governo è venuto in mente di scagliarsi contro l’eurocrazia opprimente dei burocrati. Lancia in resta, ma senza niente in mano.
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di Carlo Musilli
Dopo nove anni di congelamento, a Teheran inizia il disgelo. Unione europea, Stati Uniti e Onu hanno revocato le sanzioni contro l’Iran, che torna così ad avere un ruolo di peso sulla scena economica e politica mondiale. La decisione è arrivata dopo che l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) ha dato il via libera all'applicazione degli accordi di Vienna, certificando che le autorità iraniane hanno rispettato gli impegni sul nucleare sottoscritti lo scorso 14 luglio con sei potenze (i cinque membri del Consiglio di Sicurezza Onu - Usa, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina - più la Germania). Rimangono in vigore solo le sanzioni Usa legate alla sperimentazione dei missili balistici e al rispetto dei diritti umani.
L’accordo sul nucleare iraniano prevede che Teheran fornisca garanzie sul fatto che non si doterà dell’arma atomica. L’Occidente, in cambio, revocherà gradualmente le sanzioni adottate a partire dal 2006, tra cui il congelamento dei beni di individui e società collegate al programma di arricchimento.
Dal 2013, a causa degli embarghi internazionali, l’Iran ha perso qualcosa come 5 miliardi di dollari al mese. A fronte di una popolazione di oltre 77 milioni di persone, sotto le sanzioni il Pil del Paese ammontava a poco più di 400 miliardi di dollari (per avere un termine di paragone, basti pensare che l’Italia ha circa 60 milioni di abitanti e un Pil da 2.150 miliardi). A questo punto, perciò, davanti a Teheran si spalancano le porte della crescita, che naturalmente passerà per la ripresa delle esportazioni di petrolio e gas naturale, di cui l’Iran detiene rispettivamente il 9,3% e il 18,2% delle riserve mondiali.
Dal greggio, Teheran ricava già l’80% del proprio export e a breve conta di poter esportare mezzo milione di barili in più ogni giorno. Il problema è che dovrà reinserirsi in un mercato dominato da sovrapproduzione e prezzi bassissimi. La prima responsabile di questo scenario è l’Arabia Saudita - nemica dell’Iran a livello economico, politico e religioso -, che ha interesse a tenere il barile a prezzi stracciati per danneggiare i principali concorrenti (su tutti i produttori americani di shale oil) e conquistare così quote di mercato a livello globale.
L’egemonia di Riyadh sullo scacchiere del petrolio è però fortemente minacciata dal ritorno sulla scena di Teheran (non a caso ieri l'indice Tasi della Borsa saudita, che è aperta la domenica, ha chiuso in calo del 5,44%, scivolando ai minimi dal marzo 2011). Per questa ragione, oltre che per la contesa in Iraq e in Siria, dove l’Iran è alleato di Assad e di Putin, nelle ultime settimane la tensione fra i due Paesi è salita alle stelle. L’Arabia di re Salman - fondamentalista sunnita - ha dato inizio all’escalation con l’esecuzione dell’Imam sciita Nimr al-Nimr, cui hanno fatto seguito l’assalto all’ambasciata saudita nella capitale iraniana e la decisione di Riyadh d’interrompere le relazioni diplomatiche con il Paese rivale.
L’Arabia non è però riuscita a mettere in discussione l’applicazione degli accordi di Vienna e a questo punto è prevedibile che continuerà ancora a lungo la battaglia sul prezzo del barile, nel tentativo sempre più affannoso di rimanere il dominus internazionale del petrolio. L’Iran, dal canto suo, punta a indirizzare nel più breve tempo possibile il proprio greggio verso i mercati asiatici (in particolare India e Cina, visto che Giappone e Corea del Sud già compravano petrolio iraniano, con gli Stati Uniti che chiudevano un occhio). Secondo alcuni osservatori internazionali, 13 super petroliere sarebbero già pronte a partire.L’eccesso di petrolio sul mercato, perciò, aumenterà ancora invece di ridursi e ciò avrà conseguenze di varia natura per l’Europa. Da una parte, il prezzo dei carburanti sempre più basso rallenterà ancora l’inflazione, riducendo l’efficacia delle misure monetarie espansive varate dalla Bce. Dall’altra, molte aziende che hanno già incrementato i propri guadagni grazie al minor costo dell’energia beneficeranno del ritorno sulla scena dell’Iran anche perché - una volta ritirate tutte le sanzioni - Teheran ha le carte in regola per diventare il più grande mercato del Medio Oriente per l’export occidentale.
La settimana scorsa il ministro dei Trasporti iraniano ha annunciato l’intenzione di comprare 114 aerei Airbus, mentre il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha tolto il bando per l’export verso l’Iran di aerei civili. Quanto all’Italia, la Sace, società che si occupa di assicurare le operazioni di export delle nostre aziende, stima che la fine delle sanzioni contro l’Iran potrebbe portare a un incremento dell’export italiano nel Paese fino a tre miliardi di euro nei prossimi quattro anni. Con l’eccezione dell’Arabia Saudita, perciò, il disgelo di Teheran conviene a tutti.
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di Carlo Musilli
Il 2016 delle Borse è iniziato nel segno della Cina e del petrolio. Dopo un avvio di settimana da incubo, ieri i mercati europei hanno limitato i danni nel finale: Piazza Affari, che per quasi tutta la giornata aveva perso più del 2%, è riuscita poi a dimezzare il rosso, chiudendo in calo dell’1,14%. E’ andata peggio a Francoforte (-2,29%), Londra (-2,05%) e Parigi (-1,7%), ma anche in questo caso si tratta di cali inferiori a quelli registrati per gran parte della seduta.
Il salvagente è arrivato dalle autorità cinesi, che hanno deciso di sospendere da venerdì sera il blocco automatico delle contrattazioni in caso di rialzi o ribassi eccessivi. Il meccanismo, entrato in funzione proprio questa settimana, avrebbe dovuto ridurre la volatilità, ma ha provocato l’effetto opposto.
Lunedì gli scambi sono stati interrotti alle 13 e 28 locali perché la Borsa di Shanghai (dopo alcuni dati deludenti relativi alla manifattura) è arrivata a perdere più del 7%. Il tonfo ha portato con sé tutta l’Europa, che ha festeggiato il nuovo anno con un classico black monday (Francoforte -4,2%, Milano -3,2%, Parigi -2,4% e Londra -2,39%).
Il blocco per eccesso di ribasso della Borsa di Shanghai è scattato nuovamente giovedì, ad appena 14 minuti dall’avvio della seduta. Stavolta a preoccupare gli investitori è stata la nuova svalutazione dello yuan da parte di Pechino, una mossa che agli occhi dei mercati ha confermato un sospetto diffuso ormai da tempo, ovvero che il rallentamento dell’economia cinese sia in realtà più grave di quanto segnalato dai già fiacchi dati ufficiali.
L’altra anomalia che aggrava il clima di pessimismo riguarda il prezzo del petrolio, sempre più basso. Solo due anni fa un barile di greggio costava più di 100 dollari, mentre oggi siamo sotto i 35 e la tendenza al ribasso continua. Il crollo prolungato si spiega con il combinato composto di due fattori: da una parte il rallentamento della congiuntura (ieri la World Bank ha tagliato ancora le previsioni sulla crescita del Pil mondiale nel 2016), che fa prevedere un ulteriore indebolimento della domanda globale; dall’altra la politica dell’Opec, decisa a non tagliare la produzione malgrado il calo delle richieste.
A guidare il cartello dei Paesi produttori di petrolio è l’Arabia Saudita, che ha scelto di ridurre gli introiti legati al greggio (danneggiando, e non poco, i propri conti pubblici) pur di mantenere i prezzi a livelli minimi. Questa strategia ha il chiaro obiettivo di conquistare quote di mercato a danno dei concorrenti, fra cui le compagnie statunitensi di shale oil, che ricavano l’oro nero in patria con la tecnica della fratturazione della roccia. Le quotazioni internazionali a questi livelli, infatti, rendono economicamente insostenibile la produzione tramite fracking (come quella di energia da fonti rinnovabili).
In questo modo, i sauditi difendono il proprio ruolo di dominus sul mercato globale del greggio - l’Arabia è il primo produttore al mondo con 10,15 milioni di barili al giorno - e al tempo stesso conservano un margine di controllo sul più importante dei loro alleati, gli Stati Uniti. Finché Washington dipenderà dal petrolio saudita, è prevedibile che non farà mancare supporto politico a Riyadh.Negli ultimi giorni, però, questo scenario è diventato più incerto per il riaccendersi delle tensioni fra Arabia Saudita e Iran. L’escalation è iniziata il 2 gennaio, quando il regime sunnita ha giustiziato (insieme ad altre 46 persone) il leader sciita Nimr al-Nimr. In seguito sono arrivati l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran, la rottura dei rapporti diplomatici fra i due Pasi e varie altre manifestazioni di ostilità, di reazione in reazione.
Riyadh ha innescato tutto questo in risposta all’intesa dello scorso luglio sul nucleare iraniano. L’accordo è inviso ai sauditi perché prevede la graduale cancellazione delle sanzioni contro Teheran, che quindi con il tempo tornerà sulla scena internazionale come interlocutore politico e come produttore di petrolio, minacciando la leadership araba sul mercato del greggio e ostacolando il progetto di espansione politica e religiosa del regime sunnita nella zona del Golfo e del Medio Oriente. In un contesto simile, c’è il rischio che la guerra sul prezzo del petrolio sfugga di mano agli stessi sauditi.