di Carlo Musilli

Il numero uno della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha assicurato mercoledì che la Banca centrale americana non ridurrà gli stimoli all'economia, perché "una prematura stretta della politica monetaria metterebbe a rischio la ripresa". Poi però ha anche ammesso che "già nei prossimi mesi" la Fed potrebbe decidere di ridurre gli acquisti di titoli sul mercato secondario. Le parole del governatore hanno prima esaltato e poi depresso le Borse di mezzo mondo.

Ma in tanta fibrillazione planetaria per la pioggia di soldi in arrivo, è bene ricordare che pochi giorni prima lo stesso Bernanke aveva suonato un campanello d'allarme da non sottovalutare, come invece hanno puntualmente fatto i regolatori americani. Nel mirino, ancora una volta, c'è la speculazione finanziaria.

"Alla luce dell'attuale ambiente macro, caratterizzato da tassi d'interesse ultrabassi - aveva avvertito due settimane fa il numero uno della Fed -, guardiamo con estrema attenzione a ogni esempio di corsa ai rendimenti e di altre forme di eccessiva assunzione del rischio, che potrebbero avere ripercussioni sui prezzi degli asset e sulla loro relazione con i fondamentali".

Non solo: secondo Bernanke, il sistema bancario "ombra", fatto di fondi speculativi, "pone ancora dei seri rischi per il sistema finanziario. Questi fondi potrebbero non essere ancora capaci di far fronte a un default", e anche se oggi il settore "ha dimensioni inferiori rispetto a prima della crisi, è necessario affrontare le restanti vulnerabilità" rafforzando le regole.

Parole sagge, peccato che a distanza di pochissimo tempo sia accaduto l'esatto contrario. Le regole sono state ammorbidite, a tutto vantaggio delle lobby bancarie. Ed è successo proprio nell'ambito della riforma Dodd-Frank, il provvedimento varato nel 2010 dall'amministrazione Obama per rafforzare le regola della finanza Usa, responsabile della crisi mondiale scoppiata due anni prima.

A metà maggio le authority statunitensi hanno modificato una normativa cruciale, alleggerendo gli standard per la verifica dei prezzi dei contratti derivati (ovvero i titoli speculativi per eccellenza, che consentono di massimizzare i guadagni, ma espongono gli investitori a rischi altissimi).

In principio i regolatori americani avevano stabilito che i grandi gestori di asset dovessero rivolgersi ad almeno cinque banche per determinare i prezzi di questi strumenti (e si trattava già di un compromesso). D'ora in poi, invece, ne basteranno due, che saliranno a tre fra 15 mesi. Non esattamente un passo avanti in termini di trasparenza.

La questione è tutt'altro che marginale, visto che proprio l'oscurità dei mercati su cui si scambiano i derivati è stata alla base dell'esplosione speculativa di cui ancora oggi patiamo le conseguenze. L'allentamento di quella norma, dunque, preserva scientemente una di quelle "vulnerabilità" contro cui si dovrebbe combattere.

A beneficiarne sono naturalmente i colossi di Wall Street, che potranno continuare più facilmente a gonfiare commissioni e prezzi sui derivati. Si tutela così l'oligopolio delle cinque maggiori banche americane (JP Morgan, Citigroup, Bank of America, Morgan Stanley e Goldman Sachs), capaci di controllare da sole il 90% di questi contratti, in un mercato che vale la cifra oceanica di 700 mila miliardi di dollari. Un manipolo di giganti in grado di esercitare pressioni indicibili sul potere politico, come sempre molto sensibile alle ragioni di chi finanzia le campagne elettorali (e non solo).

La recente modifica non azzera certamente l'efficacia della riforma, considerando che in futuro il commercio dei titoli derivati si dovrà svolgere su piattaforme regolamentate, non più nel buio pesto che ha regnato finora. E' tuttavia preoccupante che il ripensamento sia arrivato dalla Commodity Futures Trading Commission (Cftc), l'authority di controllo su futures e derivati.

"Quello dei derivati non sarà più un mercato chiuso e opaco - ha detto il presidente della Cftc, Gary Gensler -, ma resta comunque il più oscuro del pianeta. Bisognerà quindi applicare regole simili a quelle che disciplinano il mercato azionario e quello dei futures".

Nel frattempo, però, le authority americane (comprese la Sec, ovvero la Consob americana, e la stessa Federal Reserve) tardano anche a completare molte altre norme della Dodd-Frank, come la cosiddetta la Volcker Rule, che vorrebbe impedire il trading proprietario delle banche e ridurre la propensione al rischio degli istituti. Se ne discute da tanto, ma ancora niente. Con buona pace di Bernanke e dei suoi discorsi.





di Mario Lombardo

In seguito alla diffusione della notizia che il gigante della tecnologia Apple non ha praticamente pagato alcuna tassa sulle proprie entrate negli ultimi anni, l’amministratore delegato della compagnia con sede a Cupertino, Tim Cook, è stato chiamato a testimoniare questa settimana di fronte ad una commissione del Congresso americano, teoricamente per spiegare il comportamento della propria azienda.

L’apparizione, oltre a mostrare il consueto servilismo della classe politica USA verso gli esponenti dell’aristocrazia economica e finanziaria, si è risolta però in una difesa dell’operato di Apple e in un aperto invito ad abbassare ulteriormente il carico fiscale delle corporation.

Nella giornata di martedì, una sotto-commissione permanente del Senato per le investigazioni aveva presentato i risultati di un proprio rapporto, nel quale era emerso come Apple tra il 2009 e il 2011 ha pagato la miseria di 21 milioni di dollari su tutto il proprio fatturato registrato al di fuori degli Stati Uniti, traducendosi in un’aliquota che non arriva nemmeno allo 0,1%.

La più grande azienda del pianeta per capitalizzazione di mercato ha potuto evadere impunemente le tasse grazie ad una serie di più o meno complesse manovre che hanno convogliato i profitti su scala planetaria verso proprie filiali in paradisi fiscali. In particolare, la creazione di Apple Operations International in Irlanda avrebbe permesso alla corporation fondata da Steve Jobs di pagare un’aliquota nominale pari al 2% su quasi i due terzi del suo fatturato complessivo, nonostante le operazioni in questo paese siano ammontate, per l’anno 2011, a meno dell’1% di quelle totali.

Secondo l’indagine del Senato, ciò sarebbe stato possibile grazie ad un accordo speciale concordato tra Apple e le autorità fiscali dell’Irlanda, dove peraltro l’aliquota ufficiale per le corporation – 12,5% – risulta già una delle più basse in assoluto. Questa ipotesi di un’intesa ad hoc per Apple è stata però smentita martedì dal vice primo ministro di Dublino, Eamon Gilmore.

Negli ultimi anni, poi, Apple Operations International non avrebbe nemmeno presentato le pratiche per il pagamento delle tasse per la suddetta quota di fatturato, sfruttando la diversa legislazione fiscale di Stati Uniti e Irlanda. Nel primo paese, infatti, la domiciliazione fiscale dipende dalla sede legale dell’azienda in questione (Irlanda), mentre nel secondo dal luogo in cui viene gestita (USA). Grazie a questo cavillo, Apple avrebbe evitato di pagare un solo dollaro di tasse su qualcosa come 74 miliardi di dollari, così che la compagnia tra il 2009 e il 2012 ha potuto dichiarare ben 30 miliardi di profitti.

Se un simile comportamento è tutt’altro che un’eccezione nel panorama del business a stelle e strisce, per stessa ammissione degli investigatori che hanno condotto la ricerca per la commissione del Senato, Apple è stata la prima grande azienda statunitense a sottrarre la gran parte del proprio fatturato all’autorità fiscale di qualsiasi paese.

Ciononostante, Tim Cook è apparso tutt’altro che pentito o mortificato nella sua audizione di martedì, affermando, non senza ragione, che Apple ha pagato regolarmente tutte le tasse dovute senza violare alcuna legge. Nessuno dei senatori della commissione ha potuto smentire il CEO di Apple, dal momento che quest’ultima ha semplicemente utilizzato un sistema fiscale costruito appositamente per consentire alle grandi aziende di evadere legalmente le tasse.

Cook ha inoltre ricordato come i vertici di Apple abbiano “raccomandato all’amministrazione Obama e a molti membri del Congresso di adoperarsi per semplificare drasticamente il sistema di tassazione delle corporation americane”, lasciando intendere che gli espedienti messi in atto per ridurre il carico fiscale tramite filiali estere potrebbero essere abbandonati se gli Stati Uniti dovessero applicare aliquote irrisorie come quelle in vigore in Irlanda o in altri paradisi fiscali.

Da parte dei senatori, invece, durante l’audizione non c’è stato altro che deferenza nei confronti di Cook, con il presidente della commissione, il democratico Carl Levin, e altri suoi colleghi che hanno elogiato a lungo il management di Apple, evitando accuratamente di suggerire misure o iniziative per far pagare alla compagnia la giusta quota di tasse negli Stati Uniti o per impedire la continua colossale truffa legalizzata ai danni del governo e dei normali contribuenti americani.

Le manovre messe in atto per annullare virtualmente il carico fiscale sono peraltro la regola per le corporation americane, e non solo. Pochi mesi fa, per le stesse ragioni erano finiti sotto indagine alcuni dei concorrenti di Apple, come Microsoft e HP, mentre, secondo quanto riportato dall’organizzazione Citizens for Tax Justice, tra il 2008 e il 2010 una trentina di corporation - tra cui Boeing, General Electric, Mattel e Verizon - non hanno pagato un solo dollaro di tasse a fronte di profitti complessivi pari a 205 miliardi di dollari. Se queste compagnie avessero pagato in pieno l’aliquota prevista negli USA - pari al 35% - in tre anni il governo federale avrebbe incassato oltre 78 miliardi di dollari.

Il danno causato da questo gigantesco trasferimento di ricchezza nelle tasche dell’élite economica e finanziaria è stato calcolato dalla stessa commissione del Senato, la quale ha messo in luce il collegamento tra l’impennata del debito pubblico americano e il crollo delle tasse effettivamente pagate dalle corporation, “producendo un fardello sempre più pesante per i singoli contribuenti e le generazioni future”.

Nel 1952, ad esempio, le tasse pagate dalle corporation negli Stati Uniti costituivano più del 32% di tutto il gettito fiscale federale, mentre oggi tale quota è crollata al di sotto del 9%.

Tutto ciò si è concretizzato, per l’anno 2011, in un conto fiscale di 1.100 miliardi di dollari pagato dai contribuenti individuali e di appena 181 miliardi dalle corporation. Simili dati risultano ancora più sconcertanti se si considera che, secondo alcune ricerche, il fatturato registrato all’estero dalle grandi aziende americane per l’anno 2012 ha sfiorato i duemila miliardi di dollari, mentre i profitti non tassabili negli USA sono aumentati del 70% negli ultimi cinque anni.

La stessa Apple vanta oggi una liquidità pari a 145 miliardi di dollari, di cui oltre 100 localizzabili al di fuori dei confini americani e quindi non soggetti al sistema fiscale degli Stati Uniti.

In questo scenario, la classe politica americana, come quella degli altri paesi, si limita a lanciare vuoti appelli ad una riforma globale del sistema di tassazione delle grandi compagnie multinazionali, mentre i giganteschi profitti già sottratti al fisco e alla grande maggioranza della popolazione rimangono al di fuori di qualsiasi ipotesi di confisca o, quanto meno, di un’equa tassazione.

In compenso, i politici di tutti gli schieramenti continuano a chiedere durissimi tagli alla spesa pubblica, sostenendo che non esistono più le risorse per programmi vitali che potrebbero essere invece ampiamente finanziati con la vasta ricchezza scandalosamente concentrata nelle mani di una ristretta oligarchia al vertice della piramide sociale.

di Carlo Musilli

Goodbye Bruxelles... Oppure no? Saranno gli elettori a deciderlo. Ieri il Partito Conservatore britannico ha presentato un progetto di legge sul tanto pubblicizzato referendum per uscire dall'Unione europea. Un'idea che aveva già ottenuto l’approvazione del primo ministro David Cameron e che dovrebbe portare il Paese alle urne entro il 2017. Si tratta certamente di una trovata elettorale, ma il suo potenziale è quantomeno destabilizzante.

Innanzitutto sul fronte continentale, dove rischierebbe di provocare una crisi diplomatica (per il mancato rispetto dei trattati internazionali) e forse anche una nuova tornata di speculazione anti-euro (sport in cui le banche della City sono maestre indiscusse).

L’uscita di un Paese dall’Ue non creerebbe certo gli stessi problemi di una defezione all’interno dell’Eurozona, né sarebbero paragonabili le procedure (peraltro mai scritte). Ma i mercati potrebbero giocare al massacro sulla scorta di una semplice deduzione: se oggi qualcuno può abbandonare l’Unione, perché mai domani qualcun altro non potrebbe salutare Eurolandia?

E ancora: l'Europa unita, già debole a livello globale, avrebbe ancora senso se si privasse della sua terza economia? In realtà, molti Conservatori inglesi sostengono la necessità di rimanere nel mercato unico europeo, ma allo stesso tempo vorrebbero sottrarsi ad altre pratiche comunitarie, nella convinzione che stiano diventando sempre più burocratiche e anti-democratiche.

Ma prima di sottoporre questi dubbi amletici ad altri 26 Paesi, gli adepti di Cameron dovranno risolvere un paio di grane in casa. Purtroppo per loro, al momento non hanno la maggioranza in Parlamento: fanno parte di una coalizione di governo con i liberaldemocratici, i quali non hanno alcuna intenzione di uscire dall’Ue. Il progetto referendario potrebbe quindi fallire, a meno che i parlamentari di altri partiti non lo sostengano.

Da parte sua, Cameron - che guida il governo di coalizione da tre anni - ha annunciato la ratifica della proposta lunedì sera, mentre si trovava in visita negli Stati Uniti. Quattro mesi fa il Premier si era assunto un impegno di fronte al Paese: rinegoziare i termini dell'adesione britannica all'Ue per poi tenere il famoso referendum entro cinque anni. Una posizione che però secondo qualcuno non è ancora abbastanza netta, dal momento che un centinaio di parlamentari conservatori potrebbe presentare un emendamento per criticare la decisione del governo di non anticipare la consultazione.

Sembra quindi che l'obiettivo numero uno del Premier non sia affatto ridefinire il ruolo del Regno Unito nello scacchiere politico ed economico internazionale, quanto cercare di mantenere la coesione dei Conservatori intorno al tema che più di ogni altro ha diviso la destra inglese negli ultimi decenni. L'integrazione continentale, in passato, ha contribuito alla caduta di Margaret Thatcher e di John Major. Già nel 2006 Cameron aveva intimato al suo partito di "smettere di fare casino sull'Europa".

Oggi però la situazione è ancora più difficile da gestire, soprattutto perché negli ultimi tempi è aumentata incredibilmente la popolarità dell'euroscettico Ukip (il Partito per l'Indipendenza del Regno Unito), che secondo alcuni sondaggi potrebbe contare ormai sul 18% dei voti nazionali (al momento non ha alcun rappresentante in Parlamento). Un'ascesa che naturalmente sottrae fiumi di voti ai Conservatori, più che mai angosciati in vista delle elezioni generali del 2015.

Il fenomeno è stato confermato dalle recenti consultazioni locali: l'Ukip è passato da otto a ben 147 consiglieri, ottenendo in media il 25% dei suffragi nelle circoscrizioni in cui ha presentato dei candidati. Al contrario, i Conservatori sono andati peggio del previsto, perdendo 335 seggi e fermandosi a quota 1.116.

Cameron vuole tamponare la ferita per non rischiare di morire dissanguato, ma lo fa in modo quantomeno sospetto. Basta ragionare sulla data scelta per il referendum: prevedere la consultazione nel 2017 significa vincolarla alla vittoria dei Conservatori alle prossime elezioni. "Sarebbe sbagliato chiedere ai cittadini se vogliono restare o uscire - si era giustificato Cameron a gennaio - prima di avere avuto la possibilità di correggere i nostri rapporti con l'Unione europea".

Insomma, l'addio all'Ue viene sbandierato davanti agli occhi degli elettori inglesi un po' come si è fatto in Italia con la cancellazione dell'Imu. E se in Gran Bretagna aumentano gli euroscettici, in Europa sono sempre di più gli "angloperplessi".




di Carlo Musilli

"Prostituzione dei valori in cambio di qualche ingegnere". Parola di Vinod Koshla, venture capitalist dell'energia rinnovabile. E' suo il commento più sintetico ed efficace sulla nuova lobby creata negli Stati Uniti da Mark Zuckerberg. Con la solita presunzione, il papà di Facebook ha deciso di buttarsi in un nuovo campo di cui evidentemente conosce poco: la politica. Il buon Mark ha da poco creato un'associazione dal nome "Fwd.Us", nata per fare gli interessi dei colossi tecnologici made in Usa.

Una comitiva che raccoglie diversi big della Silicon Valley: dall'amministratore delegato di Yahoo Marissa Mayer al vicepresidente di Dropbox Aditya Agarwal, passando per il cofondatore di Linkedin, Reid Hoffman, e l'ex sovrano di Microsoft, Sua Maestà Bill Gates.

In cerca di consenso, Zuckerberg si è perfino prodotto in un editoriale sul Washington Post, sostenendo che lo scopo principale della lobby sarà "promuovere politiche che mantengano gli Stati Uniti e i loro cittadini competitivi in un'economia globale, comprese le riforme dell'immigrazione e dell'istruzione", senza dimenticare ovviamente un incentivo agli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica.

Com'è ovvio, ai businessman non interessa affatto il multiculturalismo. Vogliono cambiare le norme sull'immigrazione solo perché quelle oggi in vigore danneggiano indirettamente le loro aziende, ostacolando l'afflusso dei lavoratori stranieri qualificati, compresi i remunerativi genietti dell'informatica. Fin qui nulla di strano: è di tutta evidenza che il reale obiettivo di una lobby non sia il perseguimento dell'interesse pubblico, ma il profitto economico di chi appartiene all'accolita.

Meno ovvio è che l'attività di lobby debba esser portata avanti con tanta goffaggine e ipocrisia. Sono bastati pochi giorni perché la combriccola mettesse da parte tutti i suoi ideali progressisti e socialmente impegnati, cercando smaccatamente di blandire i poteri più conservatori e oscurantisti degli Stati Uniti.

Nelle ultime settimane, Fwd.Us ha speso cifre a sette zeri per finanziare due organizzazioni vicine alle grandi multinazionali petrolifere: la "Americans For A Conservative Direction", in mano ai veterani eco-scettici del Partito Repubblicano, e il "Council for American Job Growth", guidata dai Democratici.

I fondi sono serviti ad acquistare inserzioni televisive in diversi Stati. E gli spot mandati in onda non cercavano affatto di sensibilizzare l'opinione pubblica sulla necessità di ripensare la politica delle frontiere, ma appoggiavano la realizzazione del Keystone XL - un maxioleodotto da 3.500 chilometri che metterebbe in comunicazione Canada e Texas - e le trivellazioni petrolifere nell'Arctic National Wildfile Refuge, un'area protetta in Alaska. Naturalmente gli ambientalisti d'America sono insorti in massa.

Purtroppo però non è finita. Altri video trasmessi con i soldi dei simpatici lobbisti hi-tech hanno esplicitamente attaccato la riforma dell'assistenza sanitaria varata dall'amministrazione Obama nel corso del primo mandato. Una legge azzoppata, ma che rimane comunque l'innovazione sociale più importante vista in America negli ultimi anni.

Mentre si auto-rappresentano come innovatori illuminati sul piano dell'immigrazione, dunque, gli affiliati al clan di Zuckerberg propongono ai poteri reazionari degli Stati Uniti - in primis le cosiddette "Big Oil" - un baratto pressoché esplicito, mettendo sull'altro piatto della bilancia la tutela dell'ambiente e il diritto dei cittadini alla salute. Valori di cui evidentemente si può fare a meno, quando l'unica meta a cui tendere è l'incremento degli utili trimestrali.

A onor del vero, il cinismo della nuova lobby si era manifestato ancora prima che l'associazione prendesse vita. Qualche tempo fa Joe Green, ex compagno di Zuckerberg ad Harvard e fondatore materiale di Fwd.Us, si è prodotto in una gaffe incredibile per un nerd super-informatico. Nell'intento di fare proseliti, ha inviato un'e-mail ai principali leader delle società tecnologiche americane. Purtroppo per lui il messaggio è finito nelle mani della stampa, che ha rivelato i suoi discutibili metodi di scouting.

Nel testo, Green cercava di convincere i suoi amichetti ad aderire al progetto spiegando i punti di forza della nascitura associazione: 1) "siamo una potenza politica perché controlliamo i canali di distribuzione di massa"; 2) "siamo popolari tra gli americani"; 3) "siamo ricchi anche a livello personale".

Come a dire: abbiamo i soldi, controlliamo i cervelli delle persone e godiamo perfino della loro stima. Perché non approfittarne?

di Carlo Musilli

In un colpo solo l’Ocse smentisce il governo Monti e scrive un gigantesco punto interrogativo sul destino del governo Letta. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che ieri ha presentato a Roma il suo ultimo rapporto sull’Italia, nei prossimi mesi il nostro Paese navigherà in acque peggiori del previsto: il Pil subirà quest’anno una contrazione dell’1,5%, (solo a novembre le stime parlavano di un -1%), mentre l’anno prossimo dovrebbe tornare positivo di circa mezzo punto.

Il dato più preoccupante è però quello relativo al deficit, che stando ai calcoli dell'Ocse si attesterà al 3,3% del Pil nel 2013 e al 3,8% nel 2014. Altro che pareggio di bilancio. Se queste cifre fossero confermate, Bruxelles non potrebbe chiudere a breve la procedura d’infrazione per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia, poiché il trattato di Maastricht prescrive che il dato non superi il 3%. Il governo Letta dovrebbe quindi varare una nuova manovra finanziaria, come ha confermato ieri il capo economista dell’Ocse, Pier Carlo Padoan. Eppure a Roma sembrano tutti convinti che la questione si risolverà entro la fine del mese.

Secondo il nuovo ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, la procedura dell’Unione europea “può essere chiusa nelle prossime settimane, entro fine maggio, al massimo entro i primi di giugno” e questo aprirebbe perfino la strada “a un allentamento di vincoli, come il patto di stabilità interno, liberando fondi per 12 miliardi che darebbero stimolo a investimenti produttivi”.

Insomma, sembra che l’Ocse e Saccomanni parlino di due Paesi diversi. Com’è possibile? Confrontiamo innanzitutto i numeri diffusi ieri dall’organizzazione internazionale con le previsioni pubblicate il mese scorso dall’uscente governo Monti. Secondo l’ultimo Documento di economia e finanza (Def), il deficit italiano peggiorerà quest’anno soltanto fino al 2,9% e nel 2014 scenderà addirittura all’1,8%. Quanto al Pil, i professori ritengono che quest’anno calerà dell’1,3%, per poi salire della stessa percentuale nei successivi 12 mesi.

La differenza è notevole, ma Saccomanni fa notare che le stime Ocse "non tengono conto dell'impatto del decreto per il pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione" sui conti del 2013 e del 2014. Parrebbe di capire che il decreto pagamenti sia quindi in grado di stimolare il Pil al punto da ridurne il rapporto con il deficit. La questione però non è chiara, dal momento che, nella revisione del Def effettuata dopo il varo di quello stesso decreto da 40 miliardi in due anni, le stime del governo Monti sul deficit 2013 non erano state limate al ribasso, ma al rialzo, passando dal 2,4 al 2,9%. Appena un decimo in meno della famigerata soglia invalicabile.

Su questa corda sottilissima e traballante dovrà camminare nei prossimi mesi Enrico Letta. Nel discorso tenuto alla Camera il giorno della fiducia, il neopremier ha espresso l’intenzione di varare una serie di misure, molte delle quali sembrano necessariamente implicare un aumento della spesa pubblica: dal controverso intervento sull’Imu alla soluzione della questione esodati, passando per il rilancio dell’occupazione e il sostegno alle imprese.

Un programma così ambizioso dovrebbe esigere la rinegoziazione dei vincoli di bilancio concordati con l’Europa, operazione auspicata dallo stesso Presidente del Consiglio. Tuttavia, di ritorno dal viaggio europeo che in meno di tre giorni lo ha portato a incontrare i big del continente (la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Françoise Hollande, il numero uno del Consiglio Ue Herman Van Romuy e il leader della Commissione europea José Barroso), il Premier italiano ha confermato l’intenzione di rispettare tutti gli impegni sottoscritti dai governi precedenti.

Anche ammettendo che i conti italiani del 2013 rispondano ai criteri europei senza bisogno di ulteriori interventi correttivi, dunque, non si vede in quale modo l’Esecutivo possa evitare nuove manovre e al contempo avviare il suo grandioso programma di riforme economiche. Da dove prenderemo le risorse senza scatenare l’ira funesta di Bruxelles?

L’interrogativo al momento rimane senza risposta. Ieri Letta ammesso che sta ancora “cercando di capire quali siano i margini di manovra e le possibilità per lavorare”. Speriamo che non arrivi alle stesse conclusioni dell’Ocse.   




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