di Bianca Cerri

I giornali avvertono: prima del 15 aprile il costo di un barile di petrolio potrebbe sfiorare i 120 dollari. Detta così, la cosa risulta già sufficientemente impressionante, tanto più che il problema nasce dall’utilizzo del dollaro come unità di valore del prezzo del greggio, ultimo strumento rimasto al governo degli Stati Uniti per controllare il mercato mondiale. Al di là della mera valutazione economica c’è però il tragico stillicidio delle morti sul lavoro degli addetti ai pozzi, almeno cento ogni anno solo negli Stati Uniti. Esplosioni improvvise, esalazioni letali, fuoco devastante, trivelle che crollano e cadute dall’alto stanno facendo una vera e propria strage. Ogni morte avviene in modo veloce e bastano poche centinaia di dollari per sanare la coscienza dei dirigenti delle compagnie petrolifere. Come se il lavoratore non fosse mai esistito. Se un pianista si taglia un dito o una ballerina si rompe una gamba scattano risarcimenti miliardari ma le leggi federali americane non prevedono particolari tutele per gli operai. Soprattutto se addetti ai pozzi di petrolio, dove tutto deve continuare a fare il suo percorso senza una sbavatura. Forse in altre circostanze la morte è un affare lungo, ma nei pozzi di petrolio compie la sua missione in meno di un minuto. In posti come il Wyoming, se i morti sono meno di tre non viene neppure aperta un’inchiesta e alle famiglie non vanno mai più di 15.000 dollari, 18.000 se il lavoratore non aveva ancora superato i 40 anni. Per ogni vita umana perduta, Union Drill ha pagato un massimo di 18.125 dollari ma per Ralph Barron, che di anni ne aveva 44, la cifra è scesa a 14.000. Wolverine Drilling ha risarcito con 4.765 dollari la vita di Robert Updike perché l’incidente in cui Updike perse la vita a 21 anni non era “prevedibile”. Tante altre compagnie, come ad esempio Halliburton, che hanno protezioni in alto, riescono spesso a cavarsela senza tirare fuori neppure un centesimo.


D. J. Masers vive a Worland, una cittadina del Wyoming dove la popolazione non supera i seimila abitanti e la nebbia è tanto fitta che chi può evita di guidare per paura di schiantarsi contro un palo. Nel 1998, quando aveva solo 16 anni, Masers rischiò di bruciare vivo a causa di un incendio sprigionatosi improvvisamente da uno dei pozzi.
Fu un compagno a salvarlo mettendo eroicamente a repentaglio la propria vita, poi iniziò un lungo calvario di ricoveri ed operazioni di chirurgia plastica. I segni del fuoco sono ancora visibili sulle mani di Masers che, essendo minorenne all’epoca dell’incidente, non avrebbe dovuto neppure avvicinarsi ai pozzi perché la legge vieta alle compagnie di assumere operai che abbiano meno di 18 anni.

Gli enormi fullcontainers non sono roba da ragazzi e quello che accadde a Masers prova che i ragazzi dovrebbero stare alla larga. Eppure per la H&l, la compagnia per la quale lavorava non ebbe alcuna conseguenza sul piano legale e se la cavò con un risarcimento di novemila dollari. I genitori di Masers tentarono inutilmente di trascinare in tribunale i suoi dirigenti. Oggi la H%L è in piena espansione e recentemente ha aperto nuove sedi anche in Australia e Sud Africa, mentre Masers vive con i 270 dollari al mese che lo Stato passa agli invalidi.

Da quando le compagnie petrolifere hanno deciso di aumentare ulteriormente i propri profitti affidando le trivellazione a giovani detenuti pagati pochi dollari al giorno con il pretesto della riabilitazione. A fare da tramite c’è la Volounteers of America, un’associazione d’ispirazione religiosa con svariate filiali sparse negli Stati Uniti.
Il presidente del VOA, Charles Gould, guadagna 320.000 dollari l’anno, i detenuti solo pochi spiccioli, il che dimostra che l’evangelismo sa distinguere benissimo la sintassi del cuore da quella del commercio. Nelle sedi del VOA, tra le immagini di Gesù e quelle dei Santi che ornano le pareti c’è un cartello che dice: “E’ vietato abbandonare il lavoro senza l’autorizzazione dell’autorità addetta alla concessione della libertà vigilata”.

Giovani detenuti escono ogni mattina dalle loro gabbie d’acciaio per trascorrere ore ed ore sulle pedane dei pozzi. Imboccano la via verso la redenzione trivellando petrolio per conto delle corporazioni. Un ossigeno inaspettato anche per le amministrazioni che appaltando le loro braccia guadagnano milioni che serviranno poi ad inasprire le condizioni detentive. Joe Lester era anche lui un detenuto appaltato all’industria petrolifera. Veniva da Gillette, microscopica cittadina del Wyoming dove la sua famiglia vive ancora oggi. Joe era finito nei guai per una storia di amfetamine e un giudice gli aveva promesso che se avesse resistito almeno sei mesi gli sarebbe stata concessa la libertà condizionata. Ma Joe non ce l’ha fatta: otto giorno dopo è rimasto schiacciato dal peso di un pistone ed è morto dissanguato. Come spesso accade per i tanti addetti ai pozzi che muoiono sul lavoro, la notizia della sua fine non è stata riportata neppure dalla stampa locale. Quello che conta è sempre e solo il profitto.

Intere squadre vengono reclutate nei penitenziari da un punto all’altro degli Stati Uniti. Per quattro dollari al giorno dovranno scavare fino a cinquemila metri di profondità con il fango che schizza da tutte le parti e si attacca alla pelle. Senza alcuna esperienza, senza formazione, i detenuti sono il nuovo serbatoio d’emergenza per le industrie petrolifere. Rendono il triplo se non il quadruplo rispetto ai normali lavoratori. L’importante è che restino un esercito invisibile.


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