di Nino Galloni

Per cercare di capire l'attuale situazione finanziaria, aldilà di momentanei assestamenti che vengono salutati, ogni volta, da molti analisti come segnali di ripresa e recupero che invece poi non si realizzano, occorrerebbe, forse, fare qualche passettino indietro. I primi segnali di una crisi borsistica strutturale si sono avuti nel corso del 2000, quando è apparso evidente che il ciclo dei prodotti della "new economy" si rivelava molto più corto del previsto e che, quindi, i mirabolanti rendimenti della finanza non trovavano le conferme tanto attese, al fine di proseguire nella speculazione al rialzo. Da una parte, infatti, i mercati non potevano più accontentarsi di rendimenti di poco superiori ai corsi obbligazionari, perché i grandi investitori (fra cui gli stessi fondi pensione) che avevano preso impegni di valorizzazione del capitale attorno al 7% netto all'anno durante gli anni '80 - quando era questo il rendimento reale dei titoli obbligazionari - acquistavano solo azioni che garantivano il mantenimento della promessa di elevati rendimenti; dall'altra, i redditi non tenevano il passo né della produzione, né dei corsi finanziari. In particolare, in un pianeta dove il 50% della popolazione mondiale non possedeva né telefono, né allacciamento elettrico, c'era da aspettarsi un accorciamento proprio della parte più redditizia del ciclo del prodotto nuovo e innovativo; mentre, per quanto riguardava la gran parte della produzione tradizionale il compromesso era stato trovato largheggiando nei prestiti alle famiglie dei lavoratori iperflessibilzzati (che, ad esempio negli USA, avevano visto una perdita del loro potere di acquisto anche del 40%). Così i lavoratori perdevano salario, ma destinavano una parte del prestito bancario all'acquisto di azioni con elevata redditività, potendo ripagare gli interessi e difendendo il livello dei consumi.

Ma con la crisi del 2000 - aggravatasi l'anno successivo anche a seguito degli attentati dell'11 settembre - la forbice tra reddito delle famiglie dei consumatori e prodotto interno lordo si ampliava; allora il sistema bancario e finanziario inaugurò una nuova fase: quella dei derivati. Si tratta di tecniche di gestione a breve, già utilizzate nel passato, consistenti nella vendita o cartolarizzazione di crediti giudicati "difficili" e nell'utilizzo delle somme così ricavate per implementare i rendimenti delle situazioni debitorie. Ciò che è cambiato da circa sette anni a questa parte, è stato però l'uso strutturale e sistematico di tale strumento che, adesso, sta rischiando di travolgere tutto il sistema finanziario. Dopo gli esageratamente elevati rendimenti obbligazionari durante gli anni '80 (che hanno favorito l'esplosione dei debiti pubblici) e dopo il lungo periodo di euforia borsistica durante i '90 (che ha coinciso con precarizzazione e svilimento del lavoro), ecco il terzo millennio, con l'ultima, pericolosissima, spiaggia dei derivati, degli edge funds, dei futures.

Gli Stati Uniti hanno invaso di dollari e di titoli del Tesoro i Paesi esportatori di materie prime e prodotti di largo consumo; ma negli ultimi anni India, Cina, Russia, Brasile, Venezuela e anche Francia e Germania si sono riappropriate - almeno in buona parte - della loro sovranità nazionale (così mettendo la parola "fine" sulla globalizazione, almeno come la avevamo vissuta fino all'11 settembre. Ma gli USA stanno anche perdendo una notevole guerra in medio-oriente e, conseguentemente, la loro moneta perde di credibilità. Inoltre, a Londra si specula sulle materie prime, petrolio in testa, e si prenotano quantità incredibili di petrolio cartaceo che, però, influisce sulla sua quotazione (come dice la parola "futures") e, quindi, l'economia reale subisce la struttura dei prezzi derivanti dalle esigenze di protezione dei poteri forti dalla crisi finanziaria molto di più di quanto la stessa economia reale non influenzi la finanza.

La spaccatura tra reale e finanziario, quindi, è oggi completa ed i poteri forti non solo non potranno più garantire valorizzazione al risparmio della moneta, ma non sanno ancora che pesci pigliare di fronte al superamento del modello della globalizzazione che ha ancora, certamente, il suo baluardo nella finanza e nel movimento dei capitali, ma che aspetta solo la crisi finale del dollaro per riassestarsi o su una nuova valuta internazionale o su un mondo, nuovamente, di Stati nazionali sovrani o un po' di tutte e due le cose.

E' impossibile che le borse ritrovino una pace stabile prima che la bolla speculativa dei derivati sia risolta. Ma, per tale soluzione, sono probabili solo due scenari. Il primo vede l'aumento nel numero delle banche coinvolte nei "default" che richiede ulteriore liquidità per essere gestiti; liquidità che va a far aumentare il prezzo del petrolio o di altre materie prime e dell'oro perché si scarica, in ultima analisi, proprio a Londra sui futures.

Il secondo scenario potrebbe essere costituito dagli Stati nazionali che si coordinano per trasformare la finanza dei derivati in titoli a lunghissimo termine e a moderato rendimento, che facciano da combustibile per una valuta internazionale: ovvero per grandi investimenti nella nuova infrastrutturazione del pianeta, al fine di riportare l'economia con i piedi sulla Terra. Vale a dire ricondurre la finanza al suo ruolo naturale di strumento per lo sviluppo e non – come adesso - di variabile impazzita: scarsa quando serve per la crescita e sovrabbondante in termini di speculazione e di minaccia per una sana regolazione dei mercati e degli interessi generali.


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