di Mario Braconi

“Dato che sono un economista, dovrei avere qualcosa di intelligente da dire sulla crisi [finanziaria], ma la verità è che non ci ho capito niente”: così Steven Levitt, autore del geniale best seller “Freakonomics”. E non si può dargli torto: quale economista, infatti, sarebbe stato in grado di prevedere che il debito complessivo degli Stati Uniti, che nel 1980 valeva già il 163% del Prodotto Interno Lordo, avrebbe raggiunto nel 2007 l’astronomico livello del 346% del PIL? Avremmo creduto qualcuno che profetizzasse un mercato finanziario basato sulla creazione e sulla negoziazione di strumenti finanziari di cui, ad un dato punto, è impossibile determinare il valore? In un contesto di una difficoltà senza precedenti dovremmo forse sentirci rassicurati dalla sicumera del Segretario del Tesoro americano, Henry Paulson, che annuncia al mondo la più grande operazione di salvataggio di Stato della storia, coerente con le recenti esperienze di nazionalizzazione di banche private, ma con l’ulteriore difetto di massimizzare il livello di discrezionalità negli interventi? Per inciso, è interessante notare che Paulson si è deciso ad agire solo quando il suo ex datore di lavoro (Goldman Sachs) è entrato nel mirino dei venditori allo scoperto.

Probabilmente il 2008 sarà ricordato come l’anno in cui l’America, sobillata dal suo profeta ex capitalista, si trasformò in un paese socialista, dove le banche vengono nazionalizzate. Che proprio negli USA, la vasta prateria dove dovrebbero dominare indisturbati gli “spiriti animali”, si stia consumando la nemesi del keynesianesimo? Certo qualcosa non quadra: l’ha capito perfino George W. Bush, che non è un genio: “Di sicuro ci sono degli amici che in questo momento staranno dicendo: ma non era un uomo che crede nel libero mercato? Che gli prende?”. Eppure, ad un’analisi un po’ più attenta, anche questo fenomeno apparente è il frutto di una mistificazione.

Il piano di Paulson, come noto, prevede l’acquisto da parte del governo di centinaia di miliardi di dollari di titoli, il cui valore effettivo è ignoto: il progetto è stato “venduto” ai media come la versione riveduta e corretta del RTC (Resolution Trust Company), uno altro schema governativo organizzato nel 1989, il cui obiettivo era salvare le banche cooperative (Savings-and-Loan Banks). C’è però un’importante differenza, su cui si è abilmente glissato: allora si trattava di salvare banche che erano già fallite; in questo caso, si cerca di impedire il fallimento di banche che, pur in difficoltà, sono ancora funzionanti.

Paulson deve aver “dimenticato” che, se il problema è la mancanza di liquidità, il Tesoro, in qualità di prestatore di ultima istanza, dispone di uno strumento molto più semplice, efficace e a buon mercato: il controllo della moneta in circolazione. Sfugge forse a Paulson che l’acquisto massiccio di titoli dalle banche in difficoltà non risolve il problema della mancanza di certezza sul valore intrinseco degli oggetti da scambiare. Inoltre, per gestire un’impresa tanto ciclopica, il Governo avrebbe bisogno di una struttura dedicata, cosa che oltretutto causerebbe conflitti d’interesse. In sintesi, il Tesoro finirebbe per “riempire i suoi forzieri di carta straccia strapagata, che lo voglia o no”, mentre l’incertezza e l’impossibilità di riferirsi a parametri certi per la valutazione dei titoli renderebbe inevitabili trattamenti arbitrari negli acquisti.

Senza cadere nella paranoia di chi vede cospirazioni ad ogni angolo, si può affermare che l’innegabile gravità della crisi sia stata volutamente enfatizzata da Paulson e soci per spingere nella direzione dell’intervento pubblico che, per le ragioni esposte sopra, rischia di essere utilizzato in modo “disinvolto” per aiutare qualche banca “amica” e lasciar affondare le altre. Dice ancora Bush:“[…] Il mio istinto iniziale era di lasciar fare al mercato, almeno fino a quando i miei esperti mi hanno spiegato la gravità del problema. Così ho deciso di agire in modo chiaro…” Evidentemente, gli spin doctors della Casa Bianca hanno fatto un buon lavoro…

Sebastian Mallaby, giornalista britannico, collaboratore di The Economist e del Washington Post, riassume le opinioni dei diversi economisti che in questi giorni si sono esercitati ad ideare soluzioni alternative alla redistribuzione di denaro dalle tasche dei cittadini onesti a quelle di operatori imprudenti (ed impenitenti). Il governo dovrebbe prima di tutto costringere le banche ad aumentare i mezzi propri, obbligandole a non distribuire dividendi e/o a emettere nuovo capitale – strategie solitamente sgradite alle istituzioni interessate perché costose e considerate “segnali di debolezza”.

In alternativa, anziché acquistare cartaccia al valore nominale, il governo potrebbe entrare direttamente nel capitale delle banche: un modo di supportare il mercato più veloce, più sicuro (il prezzo delle azioni non deve essere calcolato, basta guardare le quotazioni di Borsa su internet) e soprattutto, almeno in teoria, meno penalizzante per il contribuente, il quale, con un po’ di fortuna, potrebbe godere dell’eventuale beneficio derivante dalla rivalutazione dei corsi azionari, effetto del risanamento. Ma c’è da scommettere che queste idee a Washington non piacciano molto.

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