di Mario Braconi

Nel discorso con il quale ha caldeggiato l’approvazione del piano Paulson (850 miliardi di dollari dei contribuenti americani usati per acquistare titoli impossibili da valutare) il presidente George W. Bush ha evocato lo scenario di una “lunga e dolorosa recessione” quale immediata conseguenza dell’inazione. Pur non avendo chiamato direttamente in causa la Grande Crisi americana iniziata con il crollo della Borsa del 1929, il riferimento a quegli anni drammatici è implicito per ogni americano. Vale la pena allora analizzare le due situazioni, mettendo in luce analogie e differenze. Come ricorda Clive Webb, economista e commentatore del quotidiano britannico The Guardian, tra gli elementi assonanti va registrato il fatto che entrambe le crisi esplodono dopo un lungo periodo di dominio repubblicano. Negli anni che precedettero la Grande Crisi, infatti, si erano succeduti tre presidenti “rossi”, che condividevano una politica improntata al laissez-faire in campo economico e ai tagli fiscali. Negli ultimi trent’anni di governo americano la politica è stata simile: dopo i mandati Ronald Reagan e Bush Sr, lo scettro del potere è stato per due volte nelle mani di Bill Clinton, un democratico che sembrava aver smarrito il lascito delle idee progressiste di un Roosevelt e di un Lyndon Johnson, risultando inoltre neutrale, se non accomodante, rispetto agli eccessi della speculazione finanziaria; a Clinton, come noto, seguono i due mandati di George W. Bush, sul cui totale asservimento ai diktat del potere economico si è detto e scritto talmente tanto che non vale la pena qui aggiungere altro.

Altro elemento che accomuna la crisi degli anni Trenta e quella attuale, è che in entrambi i casi sono le fasce più deboli della popolazione, in particolare le minoranze, a soffrirne gli effetti in modo più drastico. Alla fine degli anni 20, il crollo del mercato del cotone sfasciò il diffuso sistema della mezzadria e milioni di afro-americani dovettero emigrare verso i centri urbani del Sud degli Stati Uniti, dove la discriminazione razziale rendeva quasi impossibile l’accesso a nuove opportunità di lavoro e perfino ai programmi di supporto promossi dal governo. Un recente studio condotto dalla Harvard University's Joint Centre for Housing Studies segnala: circa la metà degli afro-americani e dei latini che hanno acquistato un immobile nel 2005 lo ha fatto attraverso mutui sub-prime (lo stesso indicatore, applicato al sottoinsieme delle persone di razza bianca, non arriva al 20%).

Considerazioni politiche ed etiche a parte, allora come oggi la grande sperequazione economica del Paese rappresenta un importante elemento di vulnerabilità del sistema: negli anni 20, nonostante la crescita dei salari, i veri beneficati del governo furono i ricchi, cui vennero concessi importanti sgravi fiscali. Ottanta anni dopo, a pagare il conto è sempre il “Forgotten Man” di cui parlò Roosevelt in un celebre comizio del 1932: l’uomo della strada, che perde il lavoro, la casa, il credito. Il crollo del mercato immobiliare rende illiquide le attività delle banche che alla fine collassano, mentre il paese si avvita in una recessione sempre più drammatica. Così il Forgotten Man, oltre che dimenticato, è pure rovinato e assiste impotente allo spettacolo increscioso di un sistema che usa le sue tasse per salvare le banche, causa principale della sua rovina.

Eppure tra gli eventi degli anni Trenta e quelli odierni esistono importanti differenze, e si può forse affermare che probabilmente la storia ci ha insegnato qualche cosa e che alcuni errori nella gestione della crisi sono stati evitati. Ricorda Alberto Alesina, professore di Economia Politica ad Harvard, che, almeno per il momento, i politici si sono guardati bene dal tentare la disastrosa strada del protezionismo. Con il provvedimento conosciuto con il nome di Smoot-Hawley Tariff Act (giugno 1930), invece, il governo americano quadruplicò le tariffe sulle importazioni, scatenando una guerra commerciale tra Paesi che, anziché produrre effetti benefici sull’economia domestica, diede un contributo importante alla falcidie di posti di lavoro (nel 1930 il tasso di disoccupazione era pari a 7,8%, ma dopo l’approvazione della nuova legge salì vertiginosamente ogni anno fino a raggiungere il 25% nel 1935).

Secondo Alesina l’aver salvato le banche prima del loro fallimento è un’importante differenza tra le politiche adottate nel 2008 rispetto a quelle degli anni Trenta. Certo, la soluzione adottata da Paulson rimane discutibilissima sul piano dell’equità sociale e, riteniamo, economicamente inefficace, sarebbe stato preferibile per il Governo seguire la “via europea”, cioè acquistare quote delle banche in difficoltà. Eppure impedire il fallimento delle istituzioni finanziarie può forse evitare una recessione come quella sperimentata negli anni Trenta, che produsse risultati drammatici, con la produzione al 40% della capacità complessiva, un quarto della forza lavoro disoccupata, uomini e donne affamati allo sbando per il Paese.

In effetti, il culmine della crisi si registrò verso la fine del 1930, quando le banche fallite erano ormai 608 e tra esse la Bank of the United States, che deteneva circa un terzo di tutti i depositi andati in fumo. Secondo la celebre ricostruzione che di quegli anni fecero gli economisti monetaristi Milton Friedman ed Anna Jacobson Schwartz, la Fed avrebbe dovuto sostenere il mercato, iniettando liquidità e tagliando i tassi (un po’ quello che sta facendo ora, di concerto con il Tesoro). Facendo l’esatto contrario scatenò una forsennata catena di vendite in perdita, cosa che alle soglie del 1933 portò la statistica delle banche fallite al ragguardevole numero di 1860. A quel punto il Paese era allo stremo.

Sembra davvero appropriato il commento di Brad DeLong, economista e sostenitore di Barak Obama: se la crisi del 2008 non sarà simile a quella del 1929 è perché Bernanke e Paulson sono attenti come raggi laser ad evitare tutti gli errori di politica economica commessi in passato, da quelli dell’amministrazione Hoover a quelli commessi dalla Banca del Giappone (“trappola della liquidità”, deflazione e dieci anni di stagnazione): loro, chiosa velenoso De Long, vogliono “commettere errori del tutto inediti”.


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