di mazzetta


C'è un particolare aspetto della crisi che si continua ad ignorare in maniera sospetta, quasi a sollevare il sospetto che insieme a un sacco di gente che non ci ha capito niente, a molti che preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia, ci siano anche molti furboni determinati ad attraversare la crisi senza mettere mano ad un sistema che garantisce loro enormi privilegi e la ricchezza. . L'immagine globale ci restituisce quella che si chiama una crisi di capitali. Anche le persone meno preparate in tema sanno che la produzione in un sistema capitalista si fonda sulla disponibilità di capitale, che permette di investire e quindi produrre e vendere e di conseguenza retribuire il capitale e ripartire di slancio. Per anni la creazione di capitale virtuale, attraverso una sequenza impressionante di bolle da parte del migrare dei capitali in cerca di una retribuzione sempre maggiore, ha finanziato livelli d'investimento mai visti prima. Il furioso sviluppo della Cina lo testimonia, in poco più di due decenni il paese ha compiuto la transizione dalla miseria per oltre trecento milioni dei suoi abitanti, che ora si possono permettere livelli di consumo pari a quello dei cittadini dell'Occidente e migliorato nettamente le condizioni di vita di un altro miliardo di cinesi. In Cina inoltre è stata costruita dal nulla una capacità produttiva tale da trasformare il paese nella principale fabbrica del mondo. A questa si è affiancata, nello stesso tempo, la costruzione di un patrimonio immobiliare senza uguali al mondo in un tempo così modesto.

Tutto questo non sarebbe stato possibile senza l'iniezione di una massa enorme di capitali, affluiti dalla provincia taiwanese, dalle vicine tigri asiatiche, dal Giappone, dall'Europa e dagli USA, i capitali hanno fatto a gara per nutrire il boom cinese ed è noto perché: gli elevati livello dello sviluppo cinese e la modesta retribuzione della manodopera hanno garantito retribuzioni impossibili nelle mature economie occidentali. La caduta del muro di Berlino è stato il segnale d'inizio della grande corsa all'oro, fatta di nuovi paesi che si aprivano vergini al capitalismo. Il trionfo del sistema capitalistico è stato subito preso a pretesto per reclamare a gran voce la demolizione degli ostacoli legislativi e contabili alla fantasia creativa della finanza.

Mentre il dominio della finanza si perfezionava, si creavano in realtà le condizioni che ci avrebbero condotto alla crisi che oggi ci preoccupa tanto. L'aumento della produzione (e del consumo) globale ha portato molte delle riserve naturali di materie prime al limite, prima tutto quella del petrolio che ha raggiunto il primo Peak Point della sua storia, cioè l'incapacità della produzione nello stare dietro alla domanda. Non è stato l'effetto della speculazione, l'Opec ha già detto a chiare lettere che il petrolio a 40 dollari non giustifica investimenti per nuovi pozzi, solo con il petrolio oltre gli 80 dollari il capitale investito trova retribuzione, a 40 ci si perde. Molte materie prime sono andate alle stelle, dai minerali fino agli alimentari i prezzi sono schizzati verso l'alto senza incertezze e la grande fabbrica cinese ha dovuto preoccuparsi di fare shopping in giro per il mondo per nutrire le sue fabbriche, senza peraltro incontrare particolari resistenze politiche, visto che i capitali investiti nell'avventura non erano certo quelli cinesi.

In quegli anni i capitali sono stati strappati anche ai bilanci pubblici attraverso le estese privatizzazioni, c'è stata la corsa a liberare “risorse” utili ad alimentare la grande giostra, fino a che il raggiungimento dei limiti di sfruttamento di molte risorse ha determinato la richiesta di una quantità di capitale sempre maggiore per unità di prodotto. Un banale e scontato aumento dei prezzi, che si è incrociato con maggiori richieste salariali nei paesi produttori che hanno visto crescere la loro economia e con l'impoverimento progressivo delle masse di consumatori nei paesi nei quali l'economia era già matura, che per capacità di spesa e numero rappresentano ancora un multiplo dei nuovi consumatori cinesi. Per continuare a far girare la giostra si è dato il via libera all'indebitamento irragionevole e si sono trascurati anche i dubbi “fondamentali” della scienza economica.

Una scelta abbracciata ecumenicamente, senza timori nemmeno quando la bilancia commerciale degli Stati Uniti ha cominciato a segnalare la corsa del paese intero verso il fallimento. Una scelta consapevole, perché senza la complicità della finanza statunitense non sarebbe stato possibile mantenere la famigerata “crescita”, venendo a mancare il contributo dei migliori consumatori al mondo, senza la quale tutto il castello era destinato a crollare. Come è poi divenuto evidente, la creazione di capitale virtuale non sarebbe stata possibile senza l'entusiastica partecipazione delle istituzioni finanziarie globali e senza la complicità di grandi istituzioni finanziarie e di revisione contabile. Quando la finanza globale ha visto la curva in fondo al rettilineo dell'impossibile “crescita” infinita, non ha potuto che continuare a tenere il piede sull'acceleratore, nessuno a bordo era mai stato istruito a frenare e quei pochi che avevano il compito di vigilare sull'eccesso di velocità erano da tempo stati convertiti al verbo del lasciar fare.

Lo scontro con la realtà ha determinato prima di tutto la distruzione di una quantità mostruosa di capitali. Qualunque somma i governi possano riversare nel sistema, lo stock di capitale ante-crisi non sarà ricostituito a breve, ci vorranno anni, se non decenni di ripresa prima che sia possibile. Anche perché se i valori di borsa di sono dimezzati, è abbastanza intuitivo che la loro capacità di produrre utili e quindi capitale aggiuntivo sia ugualmente ridotta. Questo significa fuor di ogni dubbio che gli investimenti su scala globale caleranno necessariamente e con essi la produzione, gli occupati e i consumi e per diversi anni non recupereranno i livelli raggiunti prima della crisi. Le imponenti ondate migratorie di ritorno che in questi giorni riportano a casa le braccia migranti, l'aumento della disoccupazione in tutti i paesi del mondo alimentano il problema, depennando legioni di consumatori e possibili clienti che in teoria dovrebbero alimentare al mitica “ripresa”.

Cancellare gli effetti della crisi non sarà possibile senza aver ricostituito la stessa base di capitale, la stessa base di consumo e la stessa capacità produttiva. Queste condizioni però si sono dimostrate materialmente insostenibili, così come si è dimostrato insostenibile il livello di consumo pazzesco degli americani, che nei prossimi anni saranno caricati di un debito imponente e che avranno le loro belle difficoltà a interpretare il ruolo di locomotiva del treno dei consumi. Ultima, ma non meno importante nel remare contro, c'è anche il fatto indiscutibile per il quale in un momento del genere la migliore retribuzione del capitale (per chi ce l'ha) si trova nell'acquisto a prezzo di fallimento, non certo nell'investimento produttivo senza sbocchi per mancanza di clientela.

Il segreto della crisi è quindi che non c'è abbastanza capitale per risolverla alla svelta come auspica la maggioranza dei commentatori. Una parte del segreto dice poi che anche quando si riuscisse a “risolverla” si sarebbe solamente sull'orlo di un'altra identica crisi. Un destino inevitabile senza l'adozione di robusti cambiamenti, prima di tutto ideologici, che avrebbero ovviamente la conseguenza di ritardare la ripresa impossibile tanto auspicata dai maggiori attori dell'economia e pertanto inaccettabili ai grandi attori dell'economia e dai governi che negli ultimi anni sono andati al loro traino. Non potendo discutere il segreto della crisi (è segreto e quindi sconosciuto ai più) il dibattito pubblico si orienterà prevedibilmente su altro, perseverando nel costruire una macchina economica votata a velocità insostenibili, priva di limiti e dei più elementari sistemi di governo che impediscano o limitino lo schianto inevitabile e ciclico del sistema, che storicamente avviene sempre con grande spargimento di sangue e di dolore.

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