di Ilvio Pannullo

Al solito, tutto inizia in Francia. Come racconta Alessandro Cisilin, su Galatea European Magazine, le tradizionali spese parigine del sabato hanno incontrato il 13 giugno scorso una brutta sorpresa, coi supermercati semivuoti. Su iniziativa della Fnsea (“Fédération Nationale des Syndicats des Exploitants Agricoles”) e di Ja (“Jeunes Agriculteurs”) i contadini, armati di forconi, pale, trattori, cumuli di terra e perfino gli stessi carrelli dei supermercati, hanno completamente bloccato dal giovedì precedente i principali centri di smistamento della grande distribuzione. L’obiettivo dichiarato dal suo leader Lemétayer era bloccarne una trentina. Ne sono stati occupati quarantuno, e cioè oltre la metà delle fonti di approvvigionamento del paese. Motivo della protesta, le contrazioni nel prezzo pagato dagli intermediari nell’ultimo anno, senza giustificazione nella crisi. Spesso si dimentica infatti che nei momenti di difficoltà per l’economia gli sciacalli della finanza trovano ampi spazi per le loro manovre speculative. Quando tutto va giù è facile giocare al ribasso più di quanto la situazione non richieda e poi lucrare comprando a 1 quello che varrebbe 10. Quando oggetto delle contrattazioni sono quelle maniacali strutture di alchimia finanziaria, si può anche far finta di non vedere gli effetti che questo produce nell’economia reale; ma se a rimetterci - come in questo caso - sono i lattai e gli agricoltori è segno evidente che qualcosa debba cambiare. Come puntualizza più che giustamente il giornalista: “La crisi c’è e, diversamente da quanto argomentato da qualche ministro europeo, non arricchisce i meno abbienti con meccanismi deflazionistici ma allarga e aggrava la povertà. La dimostrazione, tra le altre, é che i consumi alimentari, solitamente mattone indistruttibile rispetto alla congiuntura economica, si sono anch’essi sensibilmente ridotti”. Accade in Francia, accade in Italia, accade in tutto l’occidente civilizzato.

Ad essere malata non è, però, la sola rete della distribuzione, ma piuttosto l’intera struttura dell’industria alimentare. Da quando con l’avvento dei petrolchimici il settore agricolo ha ceduto il passo all’industria agroalimentare, con i derivati del petrolio ad intossicarci l’esistenza non solo attraverso i fumi delle fabbriche, ma nascosti nel cibo, considerati come un’inevitabile conseguenza della crescita forzosa delle economie, anche l’attività più antica del mondo si è trovata inevitabilmente a dover scendere a compromessi con le logiche sempre più aggressive del liberismo. Tra le cause di distruzione degli ecosistemi la produzione di cibo risulta infatti essere al primo posto. Si continua a fingere di non comprendere che oltre a sfiancare il territorio le tecniche alimentari e, più in generale, l’onnipresente logica di sovrapproduzione svilisce il valore del cibo e di chi quel cibo plastificato lo consuma.

Accade così che l’uomo non sappia organizzare e gestire il territorio, ma lo usi semplicemente per i suoi scopi, in maniera indiscriminata e senza una prospettiva sostenibile né da un punto di vista strettamente agricolo né, tanto meno, da un punto di vista sociale. È necessario, invece, prendere coscienza dell’evidenza che la gastronomia non è intrattenimento, non consiste e non si esaurisce nel ricettario da cui sono invase riviste e rubriche televisive. La gastronomia è un atto politico, economico, etico. Anche la coltivazione e lo spostamento del cibo producono uno squilibrio nel pianeta, lo inquinano, ne esauriscono le risorse. E nessuna delle innovazioni tecnologiche di cui la produzione si serve favorisce la qualità di quel che arriva sulle nostre tavole. Semplicemente aumenta la produttività di terreni, piante, animali già esauriti nella loro capacità di rigenerarsi naturalmente.

La qualità è un diritto e un valore, non un lusso, non un eccesso di cui solo pochi possono godere. Il cibo è salute, diventa parte di noi, siamo noi. Dunque com’è possibile che l’opinione pubblica ignori o superi agevolmente il problema di capire cosa c’è in quel che mangia e quali conseguenze produca il modo in cui si nutre? L’esperienza francese - ma più in generale il corso della storia - ci insegna che le grandi rivoluzioni iniziano dal basso e dalle piccole cose, similmente a quanto accade in natura.

Come l’innocuo getto d’acqua di una fonte di alta montagna arriva, passando per il fiume, ad esprimere la devastante forza di una cascata, così anche oggi gli agricoltori francesi, all’occorrenza, sanno uscire dai terreni e compattarsi in strada. A muoversi stavolta sono stati almeno settemila. Proteste analoghe avevano indotto il governo a istituire il dicembre scorso un Osservatorio dei margini di profitto applicati dai distributori. Nulla però è cambiato nella tendenza a falcidiare i redditi agricoli. Nei giorni della protesta i vertici della distribuzione hanno mobilitato i propri dipendenti in azioni di disturbo dei blocchi dichiarando al contempo che le proteste dei contadini non intaccavano l’offerta nei supermercati. Nella guerra delle cifre però parlano le fotografie e i video diffusi dai cittadini e dai lavoratori. Il blocco è riuscito al di là delle attese, e molti scaffali rinviavano a scenari bellici. Quando si dice l’arroganza del potere.

In Francia però gli intermediari agricoli hanno a che fare con una categoria di produttori che, seppur dispersa territorialmente e scarsamente sindacalizzata, quando s’incazza, si muove da far paura. “Come sanno alcuni storici – si legge nell’articolo - la Rivoluzione Francese non esplose nel 1789. Nacque tre secoli prima, quando i contadini di molti villaggi conquistarono la proprietà dei loro terreni e ottennero che l’amministrazione locale venisse affidata ad assemblee elettive, in alcuni casi perfino a suffragio universale. La successiva Rivoluzione non scaturì dunque dalla frustrazione dell’arretratezza bensì al contrario dal permanere anacronistico di alcuni privilegi nobiliari e clericali rispetto al tessuto sociale, economico e politico più avanzato d’Europa.”

Ora come allora appare impensabile continuare sulla strada fin qui percorsa. Le rivendicazioni, sempre crescenti, di giustizia e di equità sociale si integrano male e stonano tragicamente con il disegno che fa da sfondo alla nostra civiltà in questo frangente storico. Ci si interroga, infatti, sul come sia possibile che ci si preoccupi di spendere molti più soldi per un indumento che rimane all’esterno della nostra persona rispetto a quelli spesi per qualcosa che diventa nostra materia e sostanza. Il mercato, insomma, ha posto e imposto le proprie regole e il consumatore non ha tempo, mezzi o voglia di intervenire, di prendere coscienza, di agire in ogni piccolo atto della quotidianità in maniera globale. Mangiare cibi di stagione, non pretendere uniformità dalla produzione, abituarsi a consumare meno ma meglio, assicurarsi che non ci sia sfruttamento umano dietro il cibo che si compra è condizione sufficiente e necessaria per creare i presupposti per un’agricoltura più sana e più socialmente giusta; assicurarsi insomma di non lasciarci cadaveri e deserti alle spalle è il senso degli interventi che si dovrebbero attuare, a livello individuale prima e collettivo poi.

Come si legge nell’articolo “la stessa “Fédération d Commerce e de la Distribution” si è trovata costretta in poche ore a cambiare strategia, passando dall’ostentata sicurezza del nulla di fatto all’allarmismo, con la denuncia del rischio di un “crollo nelle forniture dei prodotti alimentari di base del cinquanta per cento”, nonché di conseguenze occupazionali”. Alla conclusione dell’incontro ministeriale solo la metà delle occupazioni era terminata. Poi è arrivata la promessa del ministro dell’Agricoltura Barnier: “Generalizzeremo i controlli sui prezzi della grande distribuzione e sanzionerimo quando sarà il caso” - ha promesso - riconoscendo la “legittimità delle richieste contadine in materia di trasparenza sui costi” e annunciando un’apposita “brigata” governativa incaricata delle verifiche. Nei giorni successivi alla promessa governativa un’apparente calma è tornata a regnare nelle campagne francesi. Di nuovo, però, i sindacati hanno concesso un mese di tempo. Dinanzi all’assenza di risultati reali non mancheranno alla promessa di tornare all’azione.

In Francia le rivoluzioni cominciano dalle campagne, sebbene il fatto sia caduto nell’oblio storico, oscurato dalle vicende settecentesche di Parigi. Ed è la terra il simbolo proclamato della sua moderna nazione, contro le tentazioni “etniche” e contro l’identificazione “di sangue” che cementa l’unità tedesca al di là del Reno. Nulla di strano che siano stati proprio gli agricoltori il mese scorso a suonare la carica della protesta, svuotando gli scaffali dei supermercati cittadini. Proprio mentre la nuova manifestazione unitaria dei sindacati dell’industria e dei servizi registrava un relativo flop, la campagna sapeva far sentire la sua voce contro gli affaristi urbani dei prezzi alimentari. Con un miliardo di affamati nel mondo forse è il caso di prendere esempio da loro che di rivoluzioni ne sanno qualcosa.

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