di mazzetta

La crisi ha battuto un colpo e Dubai è rimasta al tappeto. Tecnicamente la richiesta di congelamento dei pagamenti da parte di una delle imprese dello sceicco regnante non è un default del paese, ma il significato per la comunità internazionale è comunque quello di un default visto che le casse dello stato si confondono con quelle dell'imprenditore e che in nessuna di queste sembra esserci il denaro per pagare i debiti.

La giostra finanziaria dell'emiro è rimasta a secco di capitali e non da oggi; sono ormai mesi che il destino dell’emirato appare segnato e oggi Dubai è nella condizione che fu dell'Argentina, non ha i soldi per pagare i debiti in scadenza. Non ce li ha perché il potere magnetico di Dubai e dei suoi investimenti immobiliari è evaporato con l'apparire della grande crisi e con lo scoppio della bolla immobiliare, che ha trovato scoperte le scommesse sul futuro dell'emiro e dei suoi soci.

Non ci sono i soldi per aprire nuovi cantieri e nemmeno per terminare quelli già iniziati, progetti immobiliari già acquistati sulla carta in giro per il mondo, caparre già pagate e mutui già accesi che stanno andando in fumo perché il valore di quelle proprietà tende a zero, visto che in gran parte non si sa quando e se saranno mai realizzate. Lo sceicco e i suoi soci vendevano allo scoperto, come con le catene di Sant'Antonio e gli ultimi investitori pagavano a prezzi drogati la realizzazione delle case di quelli che li avevano preceduti. E’ bastato che la crisi rallentasse l'afflusso e lo sceicco si è ritrovato nella situazione di un Maddof qualunque, anche se sicuramente finanziariamente più coperto di Maddof.

Per questo le azioni di numerose istituzioni finanziarie sono andate giù alla notizia del default prossimo. Molte banche europee sono esposte per decine di miliardi di euro con Dubai e con gli altri paesi dell'area che rischiano di essere accomunate dalle sventure del vicino, sono cadute le borse, è franata la Sterlina (già svalutatissima) e un brivido ha percorso veloce la finanza globale, ma l'effetto dell'annuncio di Dubai va molto oltre.

In primis è la dimostrazione, la prova provata, che i “salvataggi” finanziari non hanno salvato nessuno e sono stati solo una costosissima operazione di maquillage. Nemmeno le iniezioni di capitali da parte dei “cugini” del Golfo ha risollevato il mercato immobiliare di Dubai, che non è esattamente un mercato rovinato dai famigerati sub-prime, ma che sconta una distanza enorme tra il valore presunto degli immobili e quello che possono realizzare in questo momento. L'intervento dei vicini a coprire completamente la voragine, fosse pure l'emirato cugino di Abu Dhabi, non è cosa semplice, perché chiama in causa delicati equilibri politici per i quali non sembra praticabile che lo sceicco ceda la guida delle attività fallite, che sono carne della sua carne e il successo delle quali è legato alla visione di futuro che ha proiettato sul suo regno.

La borsa che corre, mentre tutti i fondamentali arretrano, è la conseguenza di queste mosse di trucco & parrucco: inondare i mercati finanziari di un'enorme massa di denaro, mentre negli Stati Uniti e altrove si permetteva alle istituzioni finanziarie fallite di manomettere i bilanci per rimandare il fallimento formale, ha permesso di tappare solo apparentemente la falla nei conti. Invece di correre a riempire i buchi, coperti dalla possibilità di assegnare valori di fantasia a poste di bilancio altrimenti mutilate, le grandi istituzioni finanziarie non hanno fatto altro che buttare i soldi dei bailout statali (non solo di quello americano) sul mercato finanziario, esattamente come facevano prima della crisi.

Coprire i buchi non fa guadagnare e comprare a prezzo di fallimento genera aspettative di profitti sicuramente più allettanti, ancor di più se l'iniezione di capitali ha la capacità d'inflazionare valori di mercato ormai crollati. La borsa è decollata di nuovo, ma senza che i fondamentali sottostanti migliorassero e senza che nessuno si sia curato di riempire le voragini lasciate dallo scoppio delle varie bolle; si è semplicemente sperato l'impossibile, e cioè che la risalita dei corsi azionari facesse recuperare i denari persi e anche quelli dei guadagni virtuali iscritti a bilancio. Intanto i crediti inesigibili sono cresciuti inesorabilmente, altre banche sono fallite e l'implosione dell'economia reale è proseguita imperterrita, si è erosa la massa dei consumatori e anche la base di capitale è ben lontana dall'essere ricostituita ai livelli ante-crisi.

L'unico risultato certo è che i grandi amministratori della finanza mondiale hanno guadagnato come prima della crisi, se non di più, facendo esattamente quello che facevano prima della crisi, che nella pratica significa gonfiare bolle. Altre bolle si sono segnalate ovunque, perché una buona parte dei capitali non più attratti dalla pericolosa economia statunitense hanno cercato di allocarsi nei paesi in via di sviluppo o in quei segmenti delle economie asiatiche più promettenti. Se la scarsità di capitali è un male, la sovrabbondanza provoca comunque problemi e, infatti, molti governi sembrano orientati a regolare l'afflusso di capitali per difendersi da questa alluvione ingestibile.

Le grandezze relative sono tali che una porzione minima degli investimenti dirottati dagli Stati Uniti può trasformarsi in un diluvio di denaro per un paese emergente, che spesso non ha nemmeno i mezzi per controllare certi movimenti, ma ci sono molte economie asiatiche che a loro volta registrano quotazioni irrealistiche e quindi bilanci incerti e poco affidabili. Anche la ricchezza della Cina è una grandezza sopravvalutata e nasconde opacità bancarie e sopravvalutazioni immobiliari.

La velocità con la quale le istituzioni finanziarie hanno finto di aver risolto qualcosa è funzionale alla necessità di evitare di giungere alla resa dei conti, perché se è vero che l'economia globale è dominata dal sentiment, è pur vero che i numeri hanno la sgradevole caratteristica di fregarsene del sentiment. I numeri della crisi sono stati riscritti, nella speranza che la realtà economica avesse il buon gusto di riallinearsi in fretta ai bilanci taroccati.

I numeri incorruttibili ci dicono che mentre le borse hanno ripreso a correre, tutto il resto è arretrato. Sempre più disoccupati, sempre più banche fallite, sempre meno capitale disponibile per l'economia reale. Come in passato, tutti guardano al magico calderone che dovrebbe moltiplicare i soldi e agli stregoni che presiedono a questo rito e molti piccoli investitori avranno già ributtato nel calderone quanto scampato alla crisi; ma lo stregone è sempre lo stesso di prima, quello che costruiva i derivati con una coda di Parmalat, un po' di pelo di bond Argentino e succo di Cirio.

È per questo che il denaro viaggia sempre nella stessa direzione, sarebbe ben strano che i grandi della finanza si preoccupassero di creare profitti da distribuire ai piccoli investitori o di finanziare attività non speculative per questo sconosciute. I politici che hanno sperato nella ripresa dell'erogazione del credito personale e strumentale erano illusi o conniventi, trattandosi di impieghi che generano meno profitti della roulette finanziaria.

Il botto di Dubai potrebbe riportare tutti alla realtà, il sentiment si è incrinato subito e tutti hanno capito qual è la posta in gioco. Infatti le azioni degli emirati si sono inabissate e i costi per assicurare i bond di tutti i paesi della Penisola Arabica sono schizzati verso l'alto. Una banca Saudita ha fermato un'emissione di bond in programma nei prossimi giorni e le altre economie dell'area hanno accusato il colpo, che si è allargato a cerchi concentrici fino ad increspare tutti i mercati. A poco sono servite le rassicurazioni che da Dubai sono giunte per chiarire che non si tratta di un default e che la questione non riguarda il ramo delle attività che si occupa della gestione portuale, la quarta impresa al mondo in questo campo. Il solo annuncio di Dubai ha messo molti attori in difficoltà reali e tangibili, difficoltà che ancora una volta rischiano di sommarsi a valanga.

C'è da credere che la fantomatica “ripresa” non sarà favorita dalla notizia, ma c'è anche il rischio che la crisi di Dubai rompa quel magico velo che ancora separa i mercati finanziari dalla realtà; nel qual caso c'è da tremare sul serio, perché è abbastanza evidente che non si potrà continuare per molto a negoziare titoli e valutare proprietà come se nulla fosse successo. La botta di Dubai rischia di incrinare quel che resta della fiducia di buona parte degli investitori, unendosi alla serie ormai completa dei dati economici tendenti al disastro, in particolare quelli che provengono dagli Stati Uniti.

Nessuna ripresa plausibile sarà mai in grado di neutralizzare in breve tempo le perdite reali nascoste nei bilanci e determinate con lo scoppio della crisi e nessuna ripresa plausibile è in grado di riportare a breve l'occupazione ai livelli pre-crisi. Ma il vero problema è che nessuno di questi obiettivi sembra nel mirino delle persone e alle istituzioni che dovrebbero regolare il mercato finanziario globale, tutte invece abbastanza propense a seguire ancora una volta l'istinto primario della caccia al profitto a breve termine. Per preservare questo stato di cose fino ad oggi non è stata implementata alcuna legislazione, locale o globale, che abbia come obiettivo la repressione significativa dei comportamenti leciti ed illeciti che hanno provocato la crisi.


 

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