di Liliana Adamo

Tutto ciò che vorreste sapere sul Fiscal Compact e non osate chiedere. A dare le dovute risposte non sono stati i partirti politici (compreso il M5S), tantomeno la tecnocrazia europea. C’è voluto un intero capitolo tratto da un libro, “Cosa salverà l’Europa. Critiche e proposte per un’economia diversa” (curato da B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang, H. Sterdyniak), per avere un’esplicativa disamina di cosa, in realtà, ci attende.

Procediamo a ritroso. Il trattato internazionale è stato ratificato il 2 marzo dello scorso anno da tutti gli stati membri dell’Ue (con la sola esclusione di Repubblica Ceca e Regno Unito); impone d’avere un deficit pubblico “strutturale” (vale a dire “proporzionato” all’evoluzione del ciclo economico), che non oltrepassi lo 0,5% del Pil. In altre parole, per quei paesi il cui debito pubblico è inferiore al 60% del Pil, la soglia d’ammissibilità nel rapporto fra i due oggetti sarà obbligata a livellarsi sull’1%, con uscite concernenti gli stati membri, che potranno avere uno “scoperto” sulle entrate non superiori allo 0,5% del Pil; finanche, il dato include le spese degli interessi sul debito pubblico. Avete letto bene: perfino le spese sugli interessi…

Primo elemento su cui riflettere: il termine “strutturale” ha in sé complicati procedimenti statistici che “ritoccano” il calcolo secondo il ciclo economico. Ebbene, vista l’attuale recessione, le entrate (ovverossia, le tasse), si abbassano (ma non la pressione fiscale che fornisce, comunque, una minore quantità di denaro), mentre si alzano le uscite, per esempio quelle che coprono gli ammortizzatori sociali. La “correzione” ne terrà conto? In pratica, chi ha un disavanzo pari al 2% del Pil potrà ottenere un dato “strutturale” conciliabile con lo 0,5% stabilito a priori dal trattato.

Nel giro di vent’anni vigerà l’obbligo a rientrare in questo limite minimo al ritmo forsennato di un ventesimo d’eccedente, per ogni benedetto anno. Significa che il debito pubblico italiano, pari a 126%, sarà obbligato a restringersi intorno al 60% del Pil e che l’Italia dovrà registrare avanzi primari fino al 2033.

Due le ipotesi perfettamente antitetiche: per gli economisti che si oppongono al Fiscal Compact, questo si tradurrà in vent’anni d’insostenibile inflessibilità, rendendo permanente la recessione economica, mentre per i tecnocrati della Bce (in testa, la cancelliera Merkel e l’intero staff della troika, Fmi e Commissione inclusi), rispettare le condizioni del trattato vorrà dire riconquistare la fiducia dei mercati, agevolare la posizione dei titoli debitori, frenare i tassi d’interesse.

Veniamo ai nostri partiti politici, riprendendone l’orientamento prima e dopo l’ultima campagna elettorale (conclusasi con un nulla di fatto). Il primo degli otto punti (sostanziali), presentati da Pierluigi Bersani alla direzione del PD, chiarisce (finalmente) la questione (pur non affrontandola di petto). "Il governo italiano dovrà apportare una correzione nelle politiche europee di stabilità, conciliando la disciplina del bilancio con investimenti pubblici produttivi, al fine d’ottenere maggiore elasticità con obiettivi a medio termine nella finanza pubblica…L’aggiustamento del debito e deficit è fra gli obiettivi a medio termine. Nell’immediato, l’emergenza sta nell’economia reale e nell’occupazione"…

Molto probabilmente, l’intento è riferito a politiche fiscali anticicliche, al temporaneo aumento del debito con la spesa pubblica non coperta da tassazione, bensì finanziata da emissione di titoli, invertendo, in tal modo, il rullo compressore del Fiscal Compact. E riferendosi anche all’introduzione di deroghe nel famoso tetto dello 0,5%, come pure al rapporto “strutturale” tra deficit e Pil, dilatando, in questo modo l’arco temporale (vent’anni) entro cui conseguire la riduzione del nostro debito. “Stabilizzazione del debito pubblico” è un termine (e un concetto), usato dal segretario del partito democratico, al posto di un rilevante azzeramento voluto dalla troika.

Per ciò che concerne l’interlocutore più irascibile, Beppe Grillo (e il M5S), assolutamente programmatica la totale rinegoziazione dei vincoli fiscali e di bilanci europei; giusto per ripristinare quei fondi tagliati a scuola pubblica, sanità, abolire l’Imu, erogare misure come reddito di cittadinanza e quant’altro. Fermo restando che nel manifesto M5S i capisaldi si concentrano principalmente sui costi dello Stato, sul taglio degli sprechi, sulla casta e i suoi affiliati, auspicando l’introduzione di nuovi strumenti tecnologici che consentano la democratizzazione al flusso d’informazioni e servizi, senza il bisogno, per il cittadino, di vari intermediari.

C’è d’aggiungere che con il Fiscal Compact cresce la preoccupazione, tutta istituzionale, di un “europeismo da gregge” in forte decadenza, influendo negativamente sulle scelte elettorali, come tra l’altro è già avvenuto, particolarmente per chi (come Monti), si presenta filo - europeista.

Ricordiamoci, che PD, UDC, perfino i berlusconiani e i leghisti, il Fiscal Compact l’hanno approvato, firmato, reso legge dello Stato, anche se la ratifica formale ci è arrivata, come un verdetto tra capo e collo, soltanto il 2 marzo del 2012. Il pericolo di una deriva economica senza appello, che coinvolga anche i vecchi capisaldi dell’Europa - i diritti acquisiti - è, secondo molti economisti contro, un dato di fatto.

Il trattato è frutto di un liberismo sregolato che agisce come un’arma a doppio taglio legata alla finanza internazionale, che scommette sul fallimento d’intere nazioni, impone profitti a scapito dell’ambiente, del lavoro, del risparmio e di un sistema basato sull’economia reale tutt’altro che obsoleta.

Ed è palese (come scrivono gli autori del pamphlet citato in apertura), il tentativo di “paralizzare completamente le politiche fiscali”, al contempo, “privare le politiche economiche di qualsiasi potere discrezionale…”, mettere in atto, cioè, l’obiettivo basilare: sbarrare la strada alle questioni nazionali che regolano i bilanci statali.

Ciascuna nazione, soprattutto nell’area del sud Europa (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, insieme a Irlanda e i paesi membri dell’Est), dovrà adottare un regime d’austerità a tempo indeterminato con misure violentemente restrittive che ledono diritti e democrazia. Ciò si traduce in diminuzione per pensioni, salari, funzioni (e funzionari) dello Stato, prestazioni sociali, ma si traduce anche, in aumento progressivo delle tasse.



Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy