di Carlo Musilli

Sulla scacchiera del petrolio, in quest'ultima parte dell'anno, le strategie dei giocatori si fanno più scoperte. Le quotazioni sono calate di circa il 40% in meno di sei mesi, con il Brent che la settimana scorsa è sceso per la prima volta in cinque anni sotto li muro dei 60 dollari al barile, salvo poi risalire leggermente.

Il crollo è dovuto al combinato composto di due fattori: la flessione della domanda globale (a dicembre l'Agenzia internazionale dell'Energia ha tagliato le stime per la quarta volta in cinque mesi) e la mancata reazione dell'Opec, che ha deciso di non ridurre la produzione, mantenendola a 30 milioni di barili al giorno.

Nel corso di un forum sull'energia ad Abu Dhabi, il ministro del Petrolio saudita, Ali al-Naimi, ha confermato che Riyadh non toccherà gli attuali livelli di produzione anche se i Paesi non Opec decideranno di diminuirla: "Se vogliono tagliarla sono i benvenuti - ha detto -, ma certamente l'Arabia Saudita non lo farà", pur essendo "al 100% insoddisfatta" dell'attuale costo del petrolio. Affermazioni apparentemente contraddittorie, che però rispondono a una logica precisa.

In effetti, il Brent sotto i 90 dollari al barile causerà un deficit di bilancio nelle casse saudite, ma è un prezzo che Riyadh pagherà volentieri in vista di obiettivi superiori. A grandi linee, il disegno è fare in modo che l'Opec danneggi i Paesi produttori estranei al cartello, colpendo direttamente i concorrenti più pericolosi (Usa e Canada) e i principali alleati della Siria di Assad (Russia e Iran), oltre a uno scomodo rivale come il Venezuela.

Sul primo fronte, il calo delle quotazioni del petrolio punta a ridurre la convenienza economica del fracking, la tecnica di estrazione di petrolio e gas tramite la fratturazione della roccia che ha permesso agli Usa di ridurre la dipendenza dall’energia estera e che presto potrebbe trasformarli in un esportatore netto (di gas). Sul ritorno economico del fracking i pareri sono discordanti: secondo Bernstein Research, un terzo della produzione non sarebbe conveniente con il prezzo del Wti di sotto di 80 dollari al barile (oggi è a 57), mentre Morgan Stanley stima che il punto di pareggio sia a circa 77 dollari al barile. Goldman Sachs e Credit Suisse ritengono invece che per i grandi giacimenti i profitti sarebbero assicurati anche al di sotto dei 60 dollari.

D'altra parte, alla Casa Bianca non dispiacciono affatto gli altri obiettivi del piano saudita, a cominciare dagli effetti sull'Iran. Più scende il prezzo del petrolio, infatti, e meno conveniente diventa il programma nucleare di Teheran, che è stato concepito anche per conservare petrolio e gas da vendere sui mercati internazionali.

Sempre dal punto di vista di Washington, però, la conseguenza più importante del tonfo petrolifero è il durissimo colpo inferto alla Russia, nemica anche dei sauditi in quanto alleato del regime di Damasco ed esportatrice di energia in Europa. Insieme alle rinnovate sanzioni economiche per la crisi ucraina e al rallentamento generale dell'economia, il calo del greggio ha innescato una serie di pesanti attacchi speculativi contro il rublo (il cui valore si è praticamente dimezzato) e potrebbe traghettare Mosca verso almeno un paio d'anni di recessione.

Infine, il calo dei prezzi del petrolio ha almeno un altro effetto gradito agli Usa, ovvero lo schiaffo al chavismo in Venezuela. Secondo un report di Moody's, il Paese sudamericano rischierebbe la bancarotta se le quotazioni del greggio si stabilizzassero intorno a quota 60 dollari al barile. Le esportazioni venezuelane dipendono per il 96,1% dal petrolio, che garantisce anche il 65% delle entrate statali. E non è un caso che gli avvoltoi della speculazione abbiano puntato il mirino proprio su Caracas, portando i rendimenti dei titoli pubblici decennali alle soglie del 24% e lo spread con il Bund addirittura oltre il 2.300 punti base.

Quanto all'Italia, il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, ha ripetuto più volte che il petrolio a 60 dollari "potrebbe essere una buona notizia", perché garantirebbe al nostro Paese uno "0,5% di crescita in più". Intanto, però, ci pensa il Fisco a fare in modo che i consumi non traggano il massimo vantaggio dal calo delle quotazioni.

Secondo stime dell'Unione petrolifera pubblicate la settimana scorsa, il prezzo del greggio è tornato sui livelli del novembre 2010, ma rispetto ad allora la benzina costa circa 27 centesimi in più (23 dovuti alle tasse e quattro all'effetto cambio), mentre il gasolio è più caro di 33 centesimi (28 per le accise e cinque per il cambio). Inoltre, nuovi aumenti fiscali sono previsti fino al 2021 da diverse clausole di salvaguardia contenute in vari provvedimenti legislativi. E pensare che oggi, al netto dei rincari sulle accise, in Italia la benzina costerebbe meno di 1,4 euro al litro e il gasolio meno di 1,2. Prezzi del genere, però, nel nostro Paese sono destinati a rimanere un miraggio. Nemmeno fossimo nel deserto saudita.

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