di Fabrizio Casari

In molti si chiedono come mai la UE ha preferito schiacciare un paese membro, fondatore dell’Unione, piuttosto che, con lungimiranza politica, decidere di salvare la Grecia e, con lei, l’idea di una Europa unita come obiettivo auspicabile per centinaia di milioni di cittadini europei. Si sarebbero potuti attivare strumenti ordinari e straordinari per assimilarne il debito (pari a poco più di quello di una grande regione italiana) e reintegrarlo in un programma di condivisione a lungo termine attraverso gli strumenti di garanzia che prevedono i trattati europei.

E ci si chiede anche se la dimensione ragioneristica a doppio standard, quella per capirci che rinegozia il debito austriaco e si rifiuta di negoziare quello greco, sia la base della comunità europea.

Ci sono due ordini di costatazione da fare. La prima è di natura squisitamente strutturale: basta con l’illusione di 19 o dei 28, sono le banche che guidano l’Europa. I governi dei principali paesi della UE sono solo il terminale politico dei consigli d’amministrazione delle grandi banche d’affari. Inutile quindi evocare Kohl o Mitterrand per poi misurare la miseria politica della Merkel o Hollande.

La politica è uscita di scena dal 1989, quando con la fine del sistema sovietico finiva la “grande paura” e il capitale finanziario poté finalmente seppellire la dimensione del capitalismo inclusivo per liberare le energie della sua dimensione più selvaggia e rapace. La grande finanza ha quindi preso il posto della politica e i figuranti che vediamo scendere dalle auto blu in favore di telecamere sono solo i ventriloqui della finanza internazionale (che li crea e li distrugge se vuole) che li obbliga a dire e a fare quello che vogliono sia detto e fatto.

In secondo luogo c’è l’aspetto politico, persino prioritario su quello finanziario, ma comunque anch’esso ad esclusivo appannaggio della grande finanza. Il sistema bancario, che con il rigore di bilancio e la fine prematura della dimensione pubblica dell’economia ha realizzato e realizza la più grande ricapitalizzazione delle sue imprese, socializzando le perdite e privatizzando i profitti, ha nella costruzione artificiale del denaro sul denaro il punto centrale del suo processo di accumulazione.

Un governo o più governi di sinistra che mettessero in discussione il comando centralizzato sulle economie europee e proponessero una inversione dei termini, oltre che della ragioni e degli obiettivi della linea economica e finanziaria da seguire, semplicemente romperebbero il giocattolo che raccoglie miliardi di profitti e scarica miliardi di debiti. Mettere in discussione anche solo il Fiscal compact, di per sé, sancirebbe l’inizio della fine per la dominazione della finanza internazionale e il parallelo comando tedesco sull’Europa.

L’inappellabilità del dogma turbo monetarista non si fonda infatti sulla presunta infallibilità (che per definizione in economia, come in ogni altro campo, non esiste) delle tesi, bensì sull’osservanza stretta del comando economico-finanziario a guida tedesca e l’applicazione pedissequa delle suddette tesi si fonda sull’assoluta convenienza di esse per la Germania, affetta dalla sua ricorrente ansia dominatrice sul continente.

Per questo la crudeltà contro Atene. Con la logica della rappresaglia, obbiettivamente familiare ai tedeschi, si è voluto castigare la disobbedienza e il suo possibile contagio, soprattutto alla Spagna, dove la possibile vittoria di Podemos alle elezioni del prossimo ottobre suona come una minaccia fortissima all’asse di comando tedesco.

Anche perché la situazione economica della Spagna ed il suo peso politico è ben maggiore di quello di Atene; per questo sono intervenuti sia a scopo repressivo (Grecia) che preventivo (Spagna). Del resto, se alla Grecia si fosse sommata la Spagna, Italia, Portogallo e Francia difficilmente avrebbero potuto continuare a nascondersi.

La guerra dei banchieri e dei loro funzionari politici europei alla nuova Grecia è il portato di una vicenda politica che riguarda l’Europa intera e risulta miope, proprio da parte di Francia, Italia, Spagna e Portogallo, non cogliere l’occasione che Atene offre per alzare la voce contro il quarto Reich e continuare a tacere sui loro interessi nazionali. Convinti di poterla fare franca con trucchi contabili, omissioni politiche e benevolenze da basso impero, i governi del Sud Europa preferiscono ancora recitare la parte di chi tiene ad evidenziare l’obbedienza dovuta ai diktat della Bundesbank piuttosto che schierasi al lato di Atene.

La Grecia ha assunto su di sé tutto il peso della controffensiva dei poteri forti europei. E’ stata identificata come la grande minaccia, immediata e per il possibile effetto contagio: di colpo ha smesso di essere l’alunno preferito per diventare quello con gravi problemi di disciplina.

Siryza é considerato dalla UE il nemico per eccellenza, giacché ha chiesto di azzerare il memorandum puntato alla testa dei greci dalla Troika e l’immediata rinegoziazione del debito, così com’è evidentemente impagabile. Il referendum è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso, dal momento che l’idea di una partecipazione popolare alle scelte di politica economica mette in discussione alla radice l’idea del governo delle elites cui s’ispira Bruxelles. L’effetto emulativo in altri paesi avrebbe rischiato mettere definitivamente in discussione l’assenza di condivisione popolare sul comando di Bruxelles sull’Europa.

Alexis Tsipras cercherà di guidare la Grecia in uno dei momenti peggiori della sua storia. Non prevede indietreggiamenti nè uscite di scena, ma di gestire alcune decine di miliardi di euro nella direzione di un riequilibrio, pur parziale, delle differenze sociali profonde che in Grecia appaiono ora macroscopiche e di proseguire nella battaglia politica contro un modello di Europa ormai rivelatosi un cappio per la maggior parte degli europei.

Ci si chiede se Tsipras avrebbe dovuto rifiutare il cappio e dimettersi. Ma la Grecia in mano a chi sarebbe andata? Sarebbe opportuno cogliere la differenza tra le parole e il governare, tra il parlare a nome della Grecia e offrire ogni giorno il necessario a 11 milioni di greci. Quello che avrebbe potuto determinarsi, se Tsipras avesse rifiutato l’accordo (come suggeriva Varoufakis, pure non del tutto incolpevole di una gestione guasconesca e poco politica delle trattative). Varoufakis è un eccellente economista e, per quanto guidato da comprensibile risentimento, sa quel che dice. Ma il problema è quello che non dice. Il suo piano B prevedeva forse una soluzione sul modello argentino?

Perché le differenze sono enormi. In Argentina ebbe luogo un default controllato che inguaiò non poco i fondi speculativi che, come avvoltoi, si erano gettati sul paese sudamericano intasandolo di titoli tossici ad alta redditività e lasciandosi dietro un paese ridotto in macerie. Grazie alla finta parità monetaria compravano in pesos e vendevano in dollari. Con volo radente atterravano come presunti investitori, salvo che, immediatamente dopo il saccheggio, abbandonavano il paese da creditori.

Dal rifiuto del governo Kirchner di sottoscrivere quel piano di lacrime e sangue per il rientro del debito, frutto dell’intreccio perverso tra banche, fondi speculativi e vertici politici del paese ad essi legati, cominciò la rinascita argentina. Ma l’Argentina (potenza industriale e territoriale, demograficamente notevole, sostenuta da paesi importanti come il Brasile) non aveva il dollaro come moneta, aveva solo stabilito (follia pura di Menem, Cavallo e dei Chicago boys) la parità sul mercato dei cambi.

Quindi non dovette battere una nuova moneta e farla apprezzare internazionalmente, perché il peso era già moneta argentina in corso legale. Gli argentini guadagnavano e spendevano in pesos. Ciò nonostante, il coralito fece paura e tutti i risparmiatori pagarono un prezzo alto per recuperare dignità e prospettiva al paese.

Tutt’altro discorso per Atene. Le condizioni finanziarie della Grecia non consentono una uscita dall’Euro, dal momento che la scarsa solvibilità nei debiti, la sostanziale mancanza di liquidità, la ridotta capacità di export, non permetterebbe generare una moneta nazionale con un esito interessante nel mercato internazionale delle valute.

Perché uscire da una moneta ad alta quotazione internazionale per assumere una moneta nazionale a basso valore sul mercato dei cambi, è possibile solo in condizioni di autosufficienza sostanziale del paese stesso, con una liquidità disponibile significativa, un equilibrio tra import ed export ed un interessante stock di riserve valutarie. E uno dei costi maggiori sarebbe stato visibile nella difficoltà ad importare le merci di cui il paese ha bisogno. Si può comprare e vendere internamente in Dracma, ma tutto ciò che s’importa va pagato in dollari o euro. E come si acquisisce la divisa se la Dracma non dispone del valore utile allo scambio sul mercato valutario e le esportazioni languono?

La Dracma, che nella condizione attuale avrebbe potuto solo funzionare come moneta parallela, avrebbe visto presto giorni nerissimi, per l’ovvia constatazione che i cittadini e le imprese avrebbero cercato di acquisire divisa vendendo Dracma, con ciò generando una spinta inflattiva mostruosa e rapida, dagli effetti dirompenti per il sistema paese.

Fatto salvo dunque il drammatico quadro tecnico e monetario greco, non è però consentito di sottovalutare la forza di una proposta politica che vede nella ristrutturazione del debito l’unica possibilità concreta di onorarlo. Così come non è possibile rinviare la soluzione di un problema come quello di una tale diversità dei fondamentali economici dei diversi paesi da non poter nemmeno concepire un’armonia economica e finanziaria dell’eurozona.

Troppi e da troppo tempo parlano di un’incapacità della Grecia di riformarsi, senza dire però che la Grecia si è già “riformata” e che proprio quelle riforme, volute dalla Troika, hanno gettato l’economia nel caos. La verità è che nessun debito è in grado di essere onorato, per nessun paese d’Europa, Germania compresa, che pur guadagnando e speculando dalla sua posizione di forza a danno dei paesi europei più deboli, non ha un panorama dei conti che la mette al riparo da amari bilanci. Ma il debito è un’arma politica usata da qualcuno contro qualcun altro; non ha la sua restituzione come obiettivo, bensì il controllo dei paesi debitori da parte dei creditori.

L’ipotesi che Atene suggeriva (e che in molti, a cominciare dallo statista di Pontassieve, non hanno voluto valorizzare causa manifesta servitù) era quella di fermare il giro della giostra che prevede i bilanci dei paesi in teoriche compatibilità ma che condanna le loro popolazioni a concreta povertà. Atene chiedeva e chiede, al netto delle schermaglie dialettiche, che l’Europa si fermi a ragionare sulla praticabilità, prima ancora che l’utilità, delle politiche rigoriste; politiche che, nate da un errore tecnico, sono diventate dottrina indiscutibile e veleno per le vene dell’economia europea e internazionale.

Nonostante nel recente passato sia stata graziata dal suo rientro debitorio, sia nel dopoguerra che nel post riunificazione, oggi Berlino non vuole ascoltare le ragioni di chi denuncia lo stridente contrasto tra il benessere dei numeri e quello delle persone. Eppure, l’inutile crudeltà dell’austerity ha finora determinato un generale impoverimento del continente senza peraltro che i bilanci dei singoli paesi abbiano riscontrato numeri migliori.

Si può legittimamente pensare che lo scopo di quelle politiche fosse proprio rompere con il sistema socioeconomico ereditato dalla ricostruzione ad oggi, comunemente chiamato “modello renano”, ma quali che siano le interpretazioni è innegabile che le politiche di rigore di bilancio hanno reso i rispettivi bilanci ancor meno buoni. Né l’indebitamento si è ridotto, né i flussi di spesa pubblica, né gli investimenti, né l’occupazione hanno visto il segno positivo.

Le politiche di aggiustamento strutturale non hanno aggiustato niente. E decine di milioni di europei “riformati” sono allo stremo. E la democrazia sta persino peggio.


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