di Carlo Musilli

Quello iniziato da Donald Trump è un gioco pericoloso. Dopo tante minacce, il presidente degli Stati Uniti ha dato sfogo alle sue ambizioni neo-protezioniste con due decreti. Il primo dispone un’indagine su larga scala per individuare le cause del deficit commerciale Usa e ogni forma di abuso da parte degli altri Stati (in 90 giorni sarà allestito un rapporto che analizzerà paese per paese). Il secondo punta a colpire i governi stranieri che sostengono con sussidi i propri prodotti in modo che possano essere venduti in America a un costo inferiore.

“Questi decreti inviano un messaggio forte e chiaro e pongono le basi per una rivitalizzazione della grande industria manifatturiera statunitense", ha detto Trump annunciando i due provvedimenti. "Il mio messaggio è chiaro: da oggi in poi chi viola le regole deve sapere che ne subirà le conseguenze. È finita l’era in cui c’è chi ruba la prosperità dell’America con le politiche commerciali”.

Insomma, la Casa Bianca sfida tutti i suoi principali partner: dall’Unione europea alla Cina, dal Messico alla Corea del Sud, passando per il Giappone. Secondo il Presidente americano, infatti, il super deficit commerciale degli Stati Uniti (che ammonta a 500 miliardi di dollari, di cui oltre 340 miliardi solo con la Cina) sarebbe frutto delle politiche di libero scambio messe in campo dalle amministrazioni precedenti. Su tutte, naturalmente, quella di Barack Obama.

In campagna elettorale Trump ha ripetuto fino alla noia che il principale nemico degli Usa sul versante commerciale è Pechino. Non a caso i due decreti arrivano a pochi giorni dalla visita in Florida del leader cinese Xi Jinping, che per la prima volta parlerà faccia a faccia con Trump. L’incontro sarà certamente molto teso, ma è improbabile che segni l’avvio di un duello fatto di dazi e contro-dazi.

Il gigante asiatico rappresenta per gli Usa un partner commerciale più importante dell’Europa e un eventuale braccio di ferro danneggerebbe pesantemente i consumatori americani, che vedrebbero lievitare i prezzi di molti prodotti ad alta frequenza d’acquisto. Per non parlare delle prevedibili ripercussioni negative su Wall Street, che proprio la settimana scorsa ha iniziato a rallentare dopo i primi tre mesi di luna di miele con il nuovo presidente.

Per questa ragione, se Trump vorrà dare corso a qualche provvedimento eclatante, lo farà verosimilmente a danno delle imprese europee. Sembrano andare in questa direzione le indiscrezioni lasciate trapelare sul Wall Street Journal a proposito di nuovi dazi del 100% su alcuni prodotti italiani e francesi come la Vespa Piaggio, il formaggio Roquefort o le acque minerali San Pellegrino e Perrier (che in realtà fanno capo al colosso svizzero Nestlé).

La giustificazione ufficiale è la disputa sulla carne agli ormoni, iniziata quasi vent’anni fa. Nel 2009 era stato raggiunto un accordo parziale con cui l’Ue aveva accettato di aprire il suo mercato alla carne americana, a patto che questa non fosse trattata con gli ormoni, considerati nocivi. Ai produttori Usa l’intesa non era parsa soddisfacente, perciò la Commissione europea aveva proposto di affrontare la questione nel Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), che però è provvidenzialmente saltato proprio dopo l’elezione di Trump. Lo psicodramma della carne piena di ormoni, perciò, resta irrisolto.

Eppure, malgrado l’importanza del settore alimentare nel commercio Usa-Ue, la sensazione è che lo scoop del WSJ sia stato lanciato come esca, per vedere di nascosto l’effetto che fa. E l’effetto, fin qui, non è stato buono: le proteste non sono arrivate soltanto dai paesi europei, ma anche da molte aziende americane, terrorizzate dalle ripercussioni che una guerra dei dazi avrebbe sui loro fatturati. Ad esempio, la Harley-Davidson si è schierata contro le barriere agli scooter europei.

Domanda: è possibile che nessun tecnico a Washington si renda conto di quanto sarebbe folle e autolesionista ingaggiare davvero una battaglia commerciale con il resto del pianeta? No, non è possibile. Ma il punto è un altro: la Casa Bianca ha un disperato bisogno di dimostrare agli americani che le promesse di Trump non sono tutte bolle di sapone.

Perché a ben vedere, fin qui, il cambiamento di rotta annunciato dal tycoon si è tradotto in una serie di fallimenti: dal doppio bando degli immigrati musulmani, impallinato due volte dalle corti federali per incostituzionalità, all’abolizione dell’Obamacare, fallita a causa dell’insipienza politica di Trump, che non ha saputo raccogliere i voti del suo stesso partito. Per distogliere l’attenzione da questi insuccessi, il Presidente americano ha deciso di passare al capitolo del nazionalismo economico, sintetizzato nello slogan della campagna elettorale “America first”.

Missione compiuta: ora i media si concentrano sul protezionismo, non più sull’immigrazione né sul sistema sanitario. Ma se non manterrà le promesse nemmeno in questo ambito, Trump perderà un’altra fetta della (poca) credibilità di cui dispone, mettendo a rischio anche il suo provvedimento di punta, la riforma fiscale.

La speranza è che, dopo lo show di questi giorni, l’amministrazione americana si limiti a una serie di provvedimenti commerciali mirati, evitando di scatenare una corsa mondiale al protezionismo. E non per senso di responsabilità nei confronti del pianeta – figuriamoci – ma perché in un mondo pieno di dazi doganali tutti sarebbero più poveri. Anche le aziende e i consumatori americani.

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