Vendere Alitalia è una missione difficile. Venderla in un unico blocco, cioè senza farne uno spezzatino, è forse impossibile. Il Governo però continua a provarci e venerdì scorso ha tirato un salvagente fatto di tempo (sei mesi) e soldi (300 milioni) ai tre commissari liquidatori: Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari. Sono loro a dover piazzare sul mercato quello che resta dell’ex compagnia di bandiera finita in amministrazione straordinaria.



Partiamo dall’inizio. Il bando per vendere Alitalia prevede due possibilità: un’offerta sull’intera compagnia oppure offerte singole per la flotta e le attività di terra. Le proposte vincolanti devono arrivare entro oggi e fino a pochi giorni fa era previsto che i commissari avessero tempo fino al 5 novembre per scegliere quella vincente. All’ultimo però il governo ha deciso di varare una proroga di sei mesi, spostando il termine al 30 aprile.

Sembra un dettaglio, ma non lo è. Lo slittamento serve ad alleggerire la pressione sui liquidatori, che altrimenti, dovendo chiudere i giochi in meno di un mese, sarebbero stati costretti a svendere la compagnia. Insomma, la proroga era necessaria: il problema è che da sola non basterà ad allontanare le nubi dal futuro di Alitalia.

Del resto, era difficile scegliere un momento peggiore per un affare del genere. Nelle ultime settimane il settore delle compagnie aeree europee ha attraversato una turbolenza prolungata. Prima il gigantesco pasticcio di Rynair, finita nella Babele delle cancellazioni a pioggia che, fra l’altro, l’hanno costretta a ritirarsi dalla partita per Alitalia. Poi il fallimento della low cost britannica Monarch Airelines. Infine il dissesto di Air Berlin, salvata dall’intervento di Lufthansa, che ne ha comprato 81 aerei e 3mila dipendenti per 210 milioni.

Lo stesso gigante tedesco è in pole position anche per l’acquisizione di Alitalia, che peraltro appartiene alla galassia di Etihad proprio come Air Berlin. Lufthansa, insomma, potrebbe diventare il collettore di tutti i disastri combinati in Europa dal colosso di Abu Dhabi. Ma l’ad Carsten Spohr ha già messo in chiaro che l’acquisto in blocco non è fattibile: “Saremmo interessati a portare avanti colloqui solo se ci fosse la possibilità di creare una nuova Alitalia”. Come dire che non solo vuole lo spezzatino, ma pretende anche di ritagliare a proprio gusto i bocconi più saporiti.

Da parte sua il governo prende tempo. O meglio, lo compra, perché tenere in vita la carcassa di Alitalia non costa poco. Insieme alla proroga dei termini, il Consiglio dei ministri ha rafforzato il prestito ponte alla compagnia, aggiungendo 300 milioni ai 600 già concessi in estate. Un gruzzolo che dovrebbe assicurare al vettore almeno un altro anno di operatività sotto la gestione commissariale.

Il governo precisa che questi soldi vengono prestati a tassi di mercato (intorno al 10%), perciò non si tratta dell’ennesimo regalo dei contribuenti ad Alitalia. Piuttosto, sarà la compagnia a ritrovarsi ancora una volta nei guai, perché il 30 settembre 2018 dovrà rimborsa un debito di circa un miliardo di euro.

Ma per allora molte cose saranno cambiate. La campagna elettorale, per esempio, sarà ormai un ricordo. Nessuno potrà usare la vendita (o la svendita) di Alitalia per spostare voti, come fece con successo Berlusconi nel 2009. All’epoca, l’ormai ex Cavaliere usò l’italianità della compagnia di bandiera come un cavallo di battaglia. Vinse le elezioni e in pochi anni la società andò ancora una volta in malora. Ora siamo daccapo. Ma questa volta, grazie alla proroga, lo spezzatino di Alitalia sarà un problema del nuovo governo.

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