Non c’è una sola forza politica che non voglia rinviare l’aumento automatico dell’età pensionabile, ma il governo tira dritto. Dal 2019 l’asticella per il trattamento di vecchiaia dei lavoratori dipendenti – a prescindere dal sesso – salirà di 5 mesi, a quota 67 anni. Un incremento che trova giustificazione nelle nuove tabelle pubblicate dall’Istat, secondo cui tra il 2013 e il 2016 la speranza di vita è aumentata appunto di cinque mesi.



Il decreto del ministero del Lavoro che stabilisce l’adeguamento automatico va emanato entro fine anno. Lo impone una legge del 2009 sull’ancoraggio dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, provvedimento ritoccato dalla riforma Fornero, la quale ha stabilito che dal primo gennaio 2021 la soglia dei 67 anni scatterebbe comunque, Istat o non Istat. Rispetto alle previsioni della Professoressa piemontese, dunque, arriveremo al traguardo con due anni di anticipo.

In questo modo l’Italia rafforzerà il suo primato di Paese con l’età pensionabile più alta d’Europa, soprattutto per le donne. Non esattamente una misura popolare in vista delle elezioni di primavera, per questo il governo è intenzionato a introdurre un correttivo. L’aumento dell’età non sarà bloccato per tutti, ma solo per 11 attività considerate “gravose”: maestre di asilo nido e di scuola materna, infermieri che fanno i turni di notte, macchinisti, camionisti, gruisti, muratori, facchini, badanti di persone non autosufficienti, oltre agli addetti alle pulizie, alla raccolta dei rifiuti e alla concia delle pelli.

Si tratta di un palliativo elettoralistico che non basterà a placare la rivolta dei sindacati, decisi a rivendicare l’accordo certificato e poi disatteso dal governo sul blocco dell’adeguamento.

La questione va analizzata sotto due profili. Palazzo Chigi e il Tesoro guardano esclusivamente ai conti dello Stato: da questo punto di vista la materia è molto complicata, perché ha a che vedere con complicati calcoli attuariali che valutano la sostenibilità del sistema previdenziale non nell’ottica breve del ciclo elettorale, ma in quella lunga della finanza pubblica. Spostare l’asticella di pochi mesi oggi vuol dire ritrovarsi con una voragine di bilancio fra 20 o 30 anni. Basti pensare che l’amento a 67 anni vale circa circa 2,5 miliardi di euro solo nel biennio 2019-2020. Senza contare che – a prescindere da queste risorse, attualmente previste nei conti dei prossimi anni – la Commissione europea contesta già all’Italia un buco nei calcoli della prossima manovra pari a 1,7 miliardi.

Poi c’è l’aspetto sociale, che non ha a che vedere con il bilancio dello Stato, ma con le tasche dei cittadini. L’aumento dell’età pensionabile si somma a un provvedimento già in vigore per le nuove pensioni, ovvero il passaggio dal modello retributivo (che permetteva di calcolare la pensione sulla base degli ultimi stipendi) a quello contributivo (fondato invece sulla somma dei contributi effettivamente versati durante tutta la vita lavorativa).

Questo meccanismo, introdotto nel 1995 dalla riforma Dini, penalizza già molte pensioni che saranno calcolate con un sistema misto (retributivo per i contributi versati fino al 95 e contributivo da quell’anno in poi) e si abbatterà come una scure sugli assegni previdenziali futuri (che saranno calcolati interamente con il contributivo).

Per questa ragione, governanti e autorità varie non fanno che ripetere ai giovani quanto sia importante avviare il prima possibile la contribuzione a un fondo pensione integrativo. L’effetto combinato delle carriere discontinue e del nuovo metodo di calcolo, infatti, garantiscono che fra qualche anno l’assegno Inps non basterà più ad assicurare una sopravvivenza dignitosa.

È in questo quadro che si inserisce il nuovo provvedimento. In sostanza, il governo ci sta dicendo che non solo in futuro le pensioni saranno notevolmente più basse, ma anche che arriveranno sempre più tardi. Con tutto quello che ciò comporta in termini di costi sociali.

A questo punto vale la pena di chiedersi a cosa serva un sistema previdenziale pubblico di questo tipo. Ha senso versare contributi obbligatori tutta la vita se poi questa imposizione non garantirà a nessuno una vecchiaia serena? Le condizioni di vita dei cittadini non sono più una preoccupazione per nessuno e l’unica stella polare da seguire è la sostenibilità dei conti pubblici. E allora, non sarebbe più sensato stabilire che da una certa data in poi l’Inps si occuperà solo delle pensioni sociali, mentre per gli altri trattamenti saranno i singoli lavoratori a doversi arrangiare con i fondi pensione privati?

L’idea di privatizzare il sistema previdenziale suona come una mera provocazione e di fatto lo è, perché nessun governo si prenderà mai una responsabilità del genere. Ma il punto è che stanno facendo qualcosa di peggio. Preoccupati solo dai conteggi di ragioneria, ci stanno dando la certezza che la vecchiaia, di qui a qualche anno, sarà l’età degli stenti.

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