Se c’è una verità che l’epidemia di Coronavirus ha mostrato a tutto il mondo è che il capitalismo occidentale non è in grado di garantire, in una situazione di crisi, un minimo di sicurezza economica ai lavoratori senza mettere a serio rischio la loro salute. L’espressione forse più lampante dell’insano impulso al profitto che caratterizza l’attuale modello di sviluppo è sembrata essere in questi giorni la decisione del numero uno di Tesla, Elon Musk, di riaprire il proprio impianto produttivo in California nonostante il divieto delle autorità.

A Fremont, nella contea di Alameda, la nota azienda produttrice di auto elettriche impiega circa diecimila persone, quasi tutte tornate forzatamente al lavoro nella giornata di lunedì e in parte già richiamate nel fine settimana. Il governatore della California, il democratico Gavin Newsom, aveva in realtà annunciato venerdì scorso che a partire da questa settimana alcune attività manifatturiere dello stato avrebbero potuto riaprire, sia pure non a pieno regime. Le autorità locali avevano tuttavia facoltà di imporre restrizioni più severe, come hanno fatto appunto la contea di Alameda e altre cinque giurisdizioni della cosiddetta “Bay Area”, attorno alla città di San Francisco.

La pazienza di Musk si è però ormai esaurita e le minacce e le invettive contro le autorità californiane, che avevano caratterizzato la sua “quarantena”, sono culminate in una sfida aperta alla legalità. L’annuncio lo ha dato lunedì su Twitter lo stesso “CEO” di Tesla, avvertendo che la sua compagnia avrebbe riaperto “in violazione delle norme della contea di Alameda”. Musk ha poi assicurato la sua presenza in azienda assieme a tutti gli altri dipendenti, offrendosi come unico e solo destinatario di eventuali ordini di arresto.

Anche a fronte di un’inosservanza così palese e grave delle leggi in vigore per combattere il Coronavirus, le autorità della contea californiana dove è situato l’unico impianto americano di Tesla non hanno comunque manifestato alcuna intenzione di eseguire arresti né di fermare la produzione. Tutti i segnali indicano infatti un probabile accordo che consenta alla compagnia di restare aperta, tutt’al più al prezzo di una sanzione più o meno simbolica.

La decisione di Musk è arrivata in concomitanza con la riapertura dell’industria automobilistica americana negli altri stati, primo fra tutti il Michigan, a fronte di una situazione sanitaria ancora drammatica e in assenza di misure di sicurezza adeguate per i lavoratori. La situazione finanziaria di Tesla non sembra particolarmente penalizzata dalla chiusura forzata, come dimostra anche il fatto che Musk ha visto aumentare di quasi 13 miliardi di dollari la sua ricchezza personale dall’inizio dell’anno. Continuare a tenere gli impianti fermi avrebbe però significato un’erosione dei profitti e, soprattutto, il rischio di perdere terreno rispetto ai concorrenti nel settore in rapida crescita dei veicoli elettrici.

Le sparate di Musk nelle ultime settimane avevano manifestato una crescente impazienza e un allineamento sempre più marcato alle posizioni semi-deliranti del presidente Trump e degli ambienti di ultra-destra che lo sostengono. I bersagli preferiti erano in particolare i vertici dello stato della California, responsabili delle misure prolungate di lockdown. Frequenti sono state anche le denunce dei miseri provvedimenti di assistenza stanziati a favore di quanti hanno perso il lavoro in questi mesi.

Un’altra tattica di Musk per fare pressioni sulle autorità e cercare di provocare una qualche resistenza popolare contro queste ultime ha consistito nel denunciare le restrizioni e le misure di distanziamento sociale come attacchi “fascisti” contro i diritti costituzionali degli americani. Musk ha talvolta sposato anche la famigerata tesi della “immunità di gregge” e svariate teorie cospirazioniste in circolazione sull’epidemia di COVID-19.

Il suo obiettivo era ovviamente quello di far ripartire il prima possibile la propria azienda, senza nessuna preoccupazione per il rischio di contagio dei suoi diecimila dipendenti, così come dei loro famigliari e della stessa regione in cui sorge l’impianto di Tesla. Musk era inoltre ricorso negli ultimi giorni a una causa legale per ottenere l’autorizzazione a riaprire, nonché ad aperte minacce, come quella di trasferire le sue attività in Texas o in Nevada. La linea morbida dello stato e della contea di Alameda è dettata con ogni probabilità anche da questi timori.

A livello ufficiale, i vertici di Tesla hanno assicurato che i dipendenti avranno tutti i dispositivi di sicurezza necessari a lavorare riducendo al minimo il rischio di contagio. Le testimonianze raccolte dai media americani nei primi giorni di ripresa delle attività suggeriscono tuttavia una realtà ben diversa. Due dipendenti di Tesla sentiti dal Washington Post hanno raccontato di come in fabbrica gli operai continuino a radunarsi e a lavorare in gruppo, spesso senza mascherine e senza che vengano fatte rispettare le distanze di sicurezza previste.

Per costringere i dipendenti a tornare al lavoro, Tesla ha messo in atto tattiche intimidatorie. Una comunicazione ufficiale è stata inviata ai lavoratori per avvertirli che, se son si fossero presentati in azienda, non gli sarebbe stato riconosciuto alcun sussidio e, quindi, sarebbero rimasti di fatto senza nessun reddito.

Altri ancora hanno descritto in modo piuttosto preciso lo stato d’animo diffuso all’interno dell’azienda. Sempre secondo una testimonianza anonima rilasciata al Post, a prevalere sarebbero “frustrazione, rabbia e paura”, poiché “Elon [Musk] sta mettendo le sue auto davanti ai suoi operai e alla loro salute”. Questa caratterizzazione del comportamento del numero uno di Tesla sembra la più adeguata per definire le motivazioni di un imprenditore onnipresente sulle cronache dei media americani e invariabilmente descritto come una sorta di genio e visionario.

Dietro alla retorica dello sguardo proiettato al futuro e della spinta costante all’innovazione si nasconde d’altra parte una situazione più problematica, soprattutto per i lavoratori a libro paga di Musk. Ben prima dell’esplosione del Coronavirus, Tesla spiccava già per le condizioni di lavoro tra le meno sicure di tutti gli Stati Uniti. Nel 2018, l’agenzia federale responsabile della vigilanza sulla sicurezza negli ambienti di lavoro (COSH) includeva infatti la compagnia californiana tra le dodici più pericolose per i loro dipendenti.

Un rapporto relativo agli anni 2015 e 2016 registrava per Tesla un numero di infortuni più alto del 31% rispetto alla media dell’industria automobilistica americana. Per quanto riguarda invece gli infortuni più gravi il tasso di incidenza era superiore alla media addirittura del doppio per il 2015 e dell’83% per l’anno successivo.

Il profitto prima di tutto e a discapito della salute dei lavoratori non è in ogni caso un’attitudine soltanto di Elon Musk e Tesla. Praticamente tutta la classe politica e la grande industria negli Stati Uniti, così come altrove, spingono da settimane per forzare il rientro in azienda dei lavoratori anche in presenza di una curva di contagi e decessi ancora in fase ascendente.

Le riaperture progressive in atto oltreoceano stanno avvenendo contro il parere della comunità scientifica, preoccupata per una probabile seconda ondata di contagi se verranno trascurate le misure adeguate, come sta appunto accadendo negli USA. Lo stesso virologo della Casa Bianca, Anthony Fauci, e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) hanno diffuso un deciso avvertimento nelle ultime ore contro provvedimenti di ritorno al lavoro prematuri che, quasi certamente, comporteranno centinaia o migliaia di nuovi decessi tra le fasce più esposte della popolazione.

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