L’accordo sulla tassazione minima delle multinazionali, partorito nei giorni scorsi dal G7 dei ministri delle Finanze, ha già incontrato i primi ostacoli sulla complicatissima strada verso l’effettiva implementazione a livello globale. L’attitudine del Senato americano non sembra infatti particolarmente propizio al provvedimento proposto dal segretario al Tesoro, Janet Yellen, soprattutto tra gli esponenti del Partito Repubblicano. L’iniziativa ha poi una portata tutt’altro che storica e, oltre a rischiare di innescare una dinamica esattamente contraria a quella auspicata, è da collegare in primo luogo agli obiettivi geo-strategici dell’amministrazione Biden.

 

A un’analisi che scalfisca anche solo la superficie dell’intesa raggiunta settimana scorsa a Londra si comprende come l’ottimismo propagandato dalla stampa ufficiale di mezzo mondo si scontri, da un lato, con i contenuti reali della proposta e, dall’altro, con le scarse possibilità che essa diventi un elemento concreto delle politiche fiscali dei paesi che saranno coinvolti nei negoziati.

Nelle intenzioni ufficiali dei promotori, la nuova tassa globale dovrebbe prevedere un’aliquota minima del 15% a carico di un centinaio delle più grandi multinazionali, assieme alla possibilità per i singoli paesi di applicare un’imposta fino al 20% sui profitti di questi stessi soggetti nella quota eccedente il 10%. L’obiettivo sarebbe l’eliminazione dei “paradisi fiscali” e lo stop alla sottrazione al fisco di quantità enormi di denaro attraverso manovre, quasi sempre legali, che consentono il trasferimento dei profitti verso paesi con tassazioni ultra-agevolate.

Nell’apparente euforia del recente G7 era quasi sfuggito il dettaglio che la nuova tassa ha davanti a sé una montagna prima di diventare realtà. L’accordo sottoscritto dai ministri delle Finanze dei paesi che ne fanno parte è solo il primissimo passo. Già il prossimo sarà piuttosto complicato, visto che sulla proposta dovranno convergere i paesi del G20, che si riuniranno a Venezia nel mese di luglio. Successivamente, se accordo dovesse esserci, arriverà la parte più ostica, cioè le trattative, presiedute dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo), tra i governi di qualcosa come 140 paesi. Nella migliore quanto più improbabile delle ipotesi, un meccanismo per l’implementazione della tassa del 15% dovrebbe essere inserito in un accordo internazionale che verrà finalizzato nel mese di ottobre.

È evidente che resistenze e diversità di vedute saranno molteplici. Ma è lo stesso paese da cui è partita la proposta sul tavolo ad aver mostrato da subito i segnali più preoccupanti. Letteralmente poche ore dopo il vertice del G7, molti senatori repubblicani al Congresso di Washington hanno preso una posizione molto netta contro l’accordo. Se, perciò, la Casa Bianca intenderà introdurre l’eventuale nuova tassa sotto forma di “trattato internazionale”, le prospettive per l’approvazione saranno molto cupe.

Infatti, secondo la Costituzione americana, per approvare un documento simile è necessario il voto dei due terzi dei senatori. Il Partito Democratico del presidente detiene però la più risicata delle maggioranze possibili (51-50) e ciò solo grazie al voto della vice-presidente Kamala Harris. Senza l’appoggio di almeno 10 repubblicani, l’ostacolo del Senato USA potrà essere superato solo con un espediente procedurale, che consente una maggioranza semplice, collegando cioè la tassa internazionale a una legislazione di bilancio americana. Questa manovra sarebbe molto delicata a livello politico e, non essendo recepito formalmente come trattato internazionale, il nuovo meccanismo fiscale non potrebbe essere oggetto di ulteriori negoziati su richiesta USA se qualche altro paese dovesse apportarvi modifiche.

Forse ancora più problematica è la caratterizzazione della tassa al 15% che è stata offerta dai leader del G7. La Yellen ha ad esempio parlato di impegno “senza precedenti” che “metterebbe fine alla corsa verso il basso nella tassazione delle multinazionali, assicurando equità e giustizia per la classe media e i lavoratori negli Stati Uniti e nel resto del mondo”. Per la ex governatrice della Fed, l’iniziativa darebbe inoltre un impulso “all’economia globale” e incoraggerebbe gli investimenti dei singoli paesi nell’educazione e nella ricerca e sviluppo. Mario Draghi ha invece dipinto un fantasioso scenario futuro che, grazie a questo “storico passo”, sarà caratterizzato da “una società più giusta ed equa per i nostri cittadini”.

Le lodi e i toni auto-celebrativi sono decisamente fuori luogo. L’aliquota del 15%, se anche fosse applicata, sarebbe troppo bassa per innescare le dinamiche auspicate da Draghi e Yellen, per non parlare della differenza che resterebbe tra la pressione fiscale su multinazionali multimiliardarie e, ad esempio, sui lavoratori. Secondo le stime OCSE, la tassa produrrebbe dai 50 agli 80 miliardi all’anno in più a livello globale e, se si considera che questa cifra dovrebbe essere suddivisa tra numerosi paesi, l’impatto sarebbe minimo. Va anche considerato che la proposta, come spiegato in precedenza, dovrà passare attraverso difficili negoziati e non è perciò da escludere che l’aliquota possa essere alla fine ridotta o che verranno introdotte eccezioni e scappatoie.

Uno degli aspetti più allarmanti è costituito invece dalle possibili pressioni che la nuova tassa produrrà sui paesi che prevedono attualmente un’aliquota superiore al 15%. L’Australia, ad esempio, ha oggi un’aliquota nominale del 30% sulle multinazionali. Nel caso l’accordo del G7 dovesse diventare la norma a livello internazionale, questo paese si ritroverebbe perciò in una situazione di svantaggio ancora peggiore rispetto a oggi ed è facile immaginare che la comunità degli affari spingerebbe per un adeguamento al ribasso.

D’altro canto, uno degli ostacoli più ostici sarà rappresentato da quei paesi che applicano alle corporation un’aliquota inferiore al 15%, come l’Irlanda, che ha infatti già espresso la propria contrarietà al provvedimento. Da valutare per la determinazione dell’efficacia della tassa sarà anche la definizione dei parametri che stabiliranno a quali compagnie verrà imposta. In sede G7 è stato per ora deciso, in modo vago, che a essere colpite saranno quelle “più grandi e con i maggiori profitti”.

Più che all’efficacia della tassa e alle probabilità di essere implementata, il dipartimento del Tesoro americano sembra ad ogni modo più interessato ai risvolti strategici della proposta. Una recente analisi del Financial Times ha toccato la questione, evidenziando come “l’accordo sulla tassa internazionale sia la prima prova concreta del rilancio della cooperazione internazionale” promessa da Joe Biden. Secondo lo stesso giornale, alcuni ministri riuniti settimana scorsa a Londra hanno ammesso “privatamente” che questo accordo era urgente e necessario per “provare che i paesi ricchi contano ancora, nel tentativo di mostrare al mondo che il 21esimo secolo non sarà dominato dalle regole fissate dalla Cina”.

Per gli Stati Uniti, infine, si tratta anche di risolvere la controversia con alcuni importanti paesi europei – e non solo – sulle “tasse digitali”, che andrebbero a colpire principalmente alcuni colossi americani. La questione aveva avvelenato i rapporti transatlantici durante la presidenza Trump, mentre ora, nel quadro del tentativo di riconciliazione promosso da Biden in funzione anti-cinese, la proposta Yellen intende superare questo scontro. Non è tuttavia chiaro per il momento se tutti i paesi che avevano ipotizzato queste “tasse digitali” finiranno per lasciarle cadere.

Il comunicato ufficiale del G7 non aiuta a sciogliere i dubbi in questo senso e introduce perciò un ulteriore elemento di incertezza, affermando soltanto che ci sarà “un adeguato coordinamento tra l’applicazione dell’imposta internazionale [del 15%] e la cancellazione di tutte le Tasse sui Servizi Digitali” attualmente allo studio in numerosi paesi.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy