Gli Stati Uniti e il governo della Papua Nuova Guinea (PNG) hanno sottoscritto lunedì un accordo di cooperazione militare diretto contro la Cina. L’isola dell’Oceano Pacifico sud-occidentale aprirà in sostanza i propri porti e aeroporti ai militari americani, mentre in un prossimo futuro non è da escludere la creazione di una o più basi militari USA in pianta stabile. L’intesa sostituisce un vecchio “memorandum d’intesa” bilaterale e arriva in risposta a un’iniziativa molto simile che lo scorso anno aveva visto come protagonisti proprio la Cina e le vicine Isole Salomone.

 

In Papua Nuova Guinea avrebbe dovuto recarsi in visita il presidente Biden dopo il G7 di Hiroshima, ma la crisi interna sul tetto del debito pubblico lo ha costretto a cancellare la tappa e a tornare anticipatamente a Washington. A firmare l’accordo è stato il segretario di Stato, Anthony Blinken, che nella capitale Port Moresby si è intrattenuto con il primo ministro papuano, James Marape e il ministro della Difesa, Win Bakri Daki. Quest’ultimo ha annunciato che, da qui ai prossimi quindici anni, il suo paese vedrà un costante aumento della presenza militare americana, anche se il numero esatto di “militari e contractors” non è stato ancora definito.

Assieme all’accordo sulla cooperazione militare, USA e PNG hanno siglato un documento in materia di “sorveglianza”. In base a esso, la Guardia Costiera americana avrà facoltà di pattugliare la “zona economica esclusiva” della Papua Nuova Guinea, che si estende per 200 miglia nautiche (370 km) al largo delle coste del paese del Pacifico. Nella conferenza stampa di lunedì con il premier Marape, il segretario Blinken ha sostenuto che questa sezione del nuovo accordo bilaterale serve principalmente a “contrastare la pesca illegale” nell’area.

Anche se non citata esplicitamente, è piuttosto la Cina l’obiettivo dell’accordo. La Papua Nuova Guinea si trova a poco più di 150 km a nord dell’Australia, ovvero uno degli alleati chiave nei piani americani per contenere, se necessario anche militarmente, la Repubblica Popolare. L’importanza della partnership con Papua Nuova Guinea, evidenziata dalla visita inizialmente programmata dallo stesso Biden, è dovuta quindi sia alla posizione geografica sia ai riflessi del già citato accordo nell’ambito della “difesa” tra Cina e Isole Salomone, visto a Washington come un’invasione della propria tradizionale area di influenza strategica.

L’ingresso delle Salomone nell’orbita di Pechino era stato un campanello d’allarme per la classe politica americana, così come quella australiana, tanto da far scattare manovre e iniziative per contrastare l’influenza cinese, tra cui l’appoggio politico e finanziario all’opposizione nel paese-arcipelago del Pacifico e la riapertura, da parte americana, di un’ambasciata nella capitale, Honiara.

Se anche l’accordo sottoscritto da Pechino aveva a che fare con la delicata sfera militare, il patto con le Isole Salomone era stato finalizzato dopo il progressivo rafforzamento di legami economici, commerciali e infrastrutturali. Per contro, gli Stati Uniti cercano di contrastare l’espansione cinese in Asia orientale offrendo quasi esclusivamente soluzioni militari. Prima della Papua Nuova Guinea, Washington aveva ad esempio concluso un accordo con le Filippine sempre per ottenere accesso alle basi militari della ex colonia, base di lancio di eventuale intervento militare a Taiwan.

Il docente di storia e relazioni internazionali Joseph Siracusa, in un’intervista alla rete russa Sputnik, ha definito la strategia americana nel Pacifico un “gioco a somma zero” che mira a escludere la presenza e l’influenza di Pechino nei paesi con cui vengono stipulate intese militari. Gli scrupoli USA non sono evidentemente per gli interessi o la sicurezza dei governi e delle popolazioni locali, bensì solo per la loro posizione geografica e l’accesso alle infrastrutture strategiche in previsione di un’escalation militare con la Cina.

Al contrario, questi paesi cercano per lo più di bilanciare i rapporti tra le due potenze, così da ricavare i maggiori vantaggi possibili dalla competizione in corso. Ciò si rende spesso necessario per via del fatto che gli Stati Uniti rappresentano il tradizionale alleato sul fronte della “sicurezza”, mentre la Cina è da tempo il partner commerciale numero uno. Questa sorta di equilibrismo strategico risulta tuttavia sempre più complicato da sostenere, soprattutto per quei paesi che accettano l’abbraccio con Washington. Oltretutto, questi ultimi, come Papua Nuova Guinea o la stessa Australia, rischiano di diventare le prime vittime in caso di guerra tra USA e Cina.

L’estremo rilievo dell’area del Pacifico meridionale nel confronto sino-americano è tale che, come prevede Siracusa, questa regione diventerà sempre più “militarizzata entro i prossimi cinque o sette anni”. Retorica a parte, l’obiettivo degli Stati Uniti è d’altronde di preparare il campo per un conflitto “caldo” con Pechino.

Questa realtà l’ha spiegata in modo abbastanza esplicito nei giorni scorsi il comandante delle forze aeree USA nel Pacifico, generale Kenneth Wilsbach in un’intervista a Nikkei Asia. Parlando dell’accordo sul possibile insediamento di basi militari in Papua Nuova Guinea nel quadro dell’accerchiamento in corso della Cina, il generale americano ha ammesso che la ricerca di alleati e partner nel Pacifico ha l’obiettivo di creare un numero sempre maggiore di aree che Pechino dovrebbe prendere di mira in caso di guerra. “Ovviamente”, ha spiegato Wilsbach, “vorremmo disperderci in quanti più posti possibile”, così da moltiplicare i bersagli che la Cina sarebbe costretta a colpire nel momento in cui il confronto con Washington dovesse definitivamente precipitare.

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