Il dato più importante emerso dall’appena conclusosi Foro di San Pietroburgo, è che l’annunciata crisi economica e finanziaria russa, pronosticata dall’Occidente tramite i suoi organismi finanziari e le sue agenzie di rating, si è rivelata una speranza e non una previsione economicamente fondata. Lo stesso nei confronti della Cina, per la quale si prevedeva una forte contrazione dell’economia mentre Pechino vanta un PIL con il segno positivo del 4,5%. Si rinnova la confusione concettuale dell’Occidente Collettivo, che scambia l’isolamento da sé con l’isolamento tout-court.

 

I numeri fanno politica e quando le politiche sono sbagliate è difficile che i numeri siano esatti. Su 193 paesi che compongono le Nazioni Unite, sono solo 52 ad applicare le sanzioni USA e UE, gli altri 141 se ne infischiano ed ottengono maggiori quote di minerali ed idrocarburi russi che ne proiettano la crescita a ritmi ancor più veloci di quanto fossero previsti fino al 2022. La rete di relazioni commerciali nata a seguito delle sanzioni dell’Occidente, ha reso possibile un ulteriore ampliamento dell’import-export. La differenziazione del portfolio ha reso la Russia meno esposta a possibili congiure finanziarie e commerciali ed il pagamento di molte delle sue forniture in Rubli ha favorito una crescita di valore della moneta russa (in un anno è cresciuta del 5% rispetto al Dollaro e del 9% rispetto all’Euro) e delle sue riserve in oro, già oggi le prime al mondo per volumi.

Commentando l’impatto delle sanzioni su Mosca, Putin ha detto che «la gente diceva che saremmo stati isolati, ma al contrario, abbiamo stabilito relazioni molto migliori in termini di partner commerciali. E nonostante la Russia sia obbligata ad aumentare la spesa per la sua difesa, i risultati economici sono oltremodo confortanti». Il miglioramento delle relazioni commerciali significa sostanzialmente un mercato più vasto e a condizioni di scambio migliori di quelle precedenti. Perché l’estrema competitività dei prezzi dell’export di idrocarburi era dettata da due fattori: da un lato la vicinanza geografica dei paesi destinatari (il blocco UE in generale e la Germania in particolare) e la brevità del transito garantita dal North Stream 1; dall’altro l’utilità politica del vincolo commerciale che consentiva una maggiore flessibilità dei prezzi. Gli idrocarburi russi permettevano uno sviluppo economico dell’area Europa maggiore e più rapido ed il ritorno sotto forma di partnership era evidente anche per Mosca: l’afflusso costante di gas e petrolio da un lato e oro e divisa strategica dall’altro costituivano un terreno straordinario per il legame e l’interconnessione tra Russia e Unione Europea, in giovamento allo sviluppo di tutta l’Eurasia.

A distanza di un anno dall’uscita dalla Russia, sono diverse le aziende occidentali che cercano di riavvicinarsi. Hanno perfettamente chiara l’entità degli affari falliti e le difficoltà a rientrare in un mercato che, per forza di cose, non consentirà più le stesse aperture concesse fino al Febbraio del 2022. Questo non tanto per una nuova dimensione più nazionalista dell’agenda economica, né per una compressione autarchica degli investimenti e del mercato; piuttosto per via di un nuovo orizzonte nei rapporti con le aziende internazionali. La questione è semplice: Putin le ha chiamate “aziende che sostengono pratiche barbare soggette a influenze politiche”. Ovvero, la Russia non vuole rapporti economici con aziende politicizzate, ovvero sensibili fino all’obbedienza cieca ai diktat del sistema politico statunitense ed europeo.

Per dirla con ulteriore chiarezza, aziende che dipendono integralmente o quasi da governi che - come si evince dallo strategic concept della NATO - definiscono la Russia “nemico”, si dicono apertamente al lavoro per favorire un regime-change a Mosca e, in alcuni casi, sfoggiano livelli di russofobia che emulano quelli in vigore nell’Europa degli anni ’30. Per queste aziende, come per questi governi, la strada verso Mosca è sbarrata. Ed avendo la Russia creato una rete commerciale e di import-export diversa da quella precedente, a trazione europea, ora sono proprio le aziende occidentali ad essere in maggiore difficoltà per le loro forniture ed il loro import-export, dal momento che un mercato della magnitudine e prospettive come quello russo non si trova in nessun angolo del pianeta.

L’aspetto peggiore per l’Occidente, in questa crisi, è proprio la verifica concreta di come le sue sanzioni, per dure e ampie che siano, hanno una efficacia limitata. In un mondo globalizzato ed interconnesso, in presenza di blocchi alternativi e con politiche difensive della propria sovranità economica, l’impatto delle sanzioni è riconducibile a turbolenze governabili. Si dimostra l’effetto boomerang dei dispositivi sanzionatori, che si sono riversati più sulle economie dei sanzionatori che su quelle dei sanzionati.

E’ notizia dolente per i meccanismi di coercizione che Stati Uniti ed Unione Europea utilizzano per piegare i governi resistenti. Il meccanismo sanzionatorio, dall’inizio degli anni ‘90 strumento di politica estera e commerciale, rivela la sua crudele inutilità. Anzi, proprio le sanzioni, illegali e unilaterali, abuso di posizione dominante, arma puntata contro 29 paesi che rappresentano il 73% della popolazione mondiale, hanno accelerato il processo di de-dollarizzazione, anche da parte di paesi un tempo amici.

Le sanzioni denunciano peraltro le truffe ideologiche che hanno contraddistinto la fase unipolare del comando capitalista. Il totem della globalizzazione è servito a dotare di una ideologia mercatista la conquista di mercati altrui; la competizione senza regole, mantra dell’ultraliberismo, è sempre valsa solo per il resto del mondo, così come le politiche prive di dazi, che erano ultraliberiste in export ma protezioniste nell’import. La presunta globalizzazione, la libera competizione in un unico e libero mercato mondiale, sono sempre state un imbroglio: all’aggressività nell’espandersi, gli USA hanno sempre affiancato uguale aggressività per impedire che anche gli altri paesi crescessero. Perché la libera competizione non esiste, per loro esiste il diritto occidentale anglosassone e il dovere del resto del mondo a riconoscerne la primazia. D’altra parte l’idea di continuare a dominarlo impedendo la crescita di altri è l’applicazione commerciale dell’imperialismo in forma militare.

 

La guerra e la NATO

C’è poi il capitolo relativo all’operazione militare in Ucraina ed alla paventata iniziativa diplomatica africana che viene definita “interessante”. Come ha spiegato il portavoce, Dmitry Peskov, «per noi il significato della frase “problema ucraino” è del tutto chiara. Non è apparsa all’improvviso lo scorso anno. Ha maturato per decenni. Riguarda la sicurezza del nostro Paese e le garanzie di sicurezza per il futuro, dell’esistenza di un centro che è apertamente ostile ai russi etnici e allo Stato russo alla nostra frontiera».

La situazione sul terreno preoccupa l’Occidente, perché nemmeno la famosa controffensiva risulta essere degna di nota sotto il profilo militare, sembra piuttosto un rilancio mediatico e propagandistico destinato alle opinioni pubbliche europee e statunitensi. Gli annunciati successi, per favorire i quali non hanno esitato a minare la diga di Kajovka non hanno ottenuto nessun risultato significativo. Come ha detto Putin, «Kiev non ha alcuna possibilità».

E se le forze di Kiev non possono avanzare, i governi occidentali non hanno più idea di cosa fare. Sessantasette mila soldati ucraini sono stati addestrati in 27 paesi NATO e oltre 200 miliardi di Dollari diretti sono stati consegnati a Kiev senza che questo abbia smosso l’operativo russo. Adesso è il turno dei caccia F-16 e dei missili Patriots, come prima lo è stato dei cannoni Himars e dei tanks Leopard, tutti definiti dalla propaganda mezzi che avrebbero potuto cambiare le sorti del conflitto. Niente da fare: i russi stanno dove stavano e l’esercito di Kiev è ridotto a poche decine di migliaia di effettivi assolutamente inutili per invertire le sorti del conflitto.

Ma di fronte ad escalation con aerei in grado di trasportare ogive nucleari, alla fornitura di proiettili all’uranio impoverito ed attacchi alle popolazioni civili delle città russe, allora l’attività militare russa potrebbe evolvere in una modalità diversa. Le assicurazioni verbali statunitensi circa l’utilizzo esclusivamente difensivo e con proiettili convenzionali non convincono: Mosca ha ricordato che gli F-16 sono aerei in grado di trasportare e lanciare missili nucleari ed ha quindi chiarito che ogni F-16 in volo verrà abbattuto, aggiungendo che la Russia si riserva di colpirli in qualunque paese vengano ospitati, dato che in Ucraina non vi sono piste sufficientemente ampie per il loro decollo.

E’ arrivato il momento per USA e UE di riprendere il filo logico di un’avventura senza senso e pericolosa anche per loro. In questo conflitto è l’Occidente ad essere isolato, non la Russia, la cui integrità da colpire è la vera ragione della carneficina ucraina. Ma quando in 30 paesi non riesci ad aver ragione di uno e quando le nazioni che ti voltano le spalle sono quelli di tre continenti su 5, diventa arduo immaginare successi. Quando si assegna lo status di nemico o avversario al 75% del pianeta, diventa difficile anche solo immaginare di poter vincere. A volte servirebbe un ragionamento prepolitico e di ordine logico prima che ideologico: persino il senso delle proporzioni e quello del ridicolo potrebbero diventare terapie efficaci rivolte contro l’arroganza imperiale autodistruttiva.

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