Come annunciato qualche giorno fa dallo stesso Donald Trump, martedì è arrivata la conferma ufficiale dell’incriminazione dell’ex presidente americano per i fatti legati all’assalto del Congresso di Washington il 6 gennaio 2021. Sono quattro i capi d’accusa che un “grand jury” federale ha contestato all’ex inquilino della Casa Bianca in un procedimento tardivo che lascia aperte più questioni di quante intenda risolverne. Il caso si aggiunge a una lunga serie di cause legali che stanno interessando Trump alla vigilia dell’inizio della campagna elettorale per le presidenziali del 2024, due delle quali già sfociate in altrettante incriminazioni formali.

Le imputazioni sono il risultato dell’indagine condotta dal procuratore speciale Jack Smith, nominato dal dipartimento di Giustizia dell’amministrazione Biden, basatasi a sua volta sul lavoro della commissione della Camera dei Rappresentanti che aveva cercato di fare luce sulla rivolta fomentata da Trump per fermare il processo di ratifica della vittoria elettorale di Joe Biden nelle elezioni del novembre 2020. I quattro capi d’accusa sono: cospirazione per frodare gli Stati Uniti; cospirazione per ostacolare un procedimento ufficiale; ostacolo e tentativo di ostacolare un procedimento ufficiale; cospirazione contro il diritto di voto.

 

I tecnicismi legali delle accuse e delle 45 pagine dei documenti che le descrivono nel dettaglio sembrano attenuare la realtà di reati invece decisamente importanti, anche se quello di gran lunga più grave non è stato incluso nei capi di imputazione formulati dal “grand jury”. La “sedizione”, cioè il tentativo di rovesciare l’ordine “democratico” degli Stati Uniti, non è infatti contemplata nelle accuse, ma, se avesse avuto un esito diverso, l’attacco dei sostenitori di Trump avrebbe potuto produrre esattamente questo risultato.

L’attenzione del procuratore speciale e del “grand jury” si è concentrata in buona parte sulle manovre dell’ex presidente e del suo entourage per selezionare in sette stati elenchi di delegati pronti a schierarsi dalla parte di Trump durante il processo di conferma dei risultati elettorali e malgrado la sconfitta alle urne. Il sistema elettorale americano non prevede il voto diretto per i candidati alla Casa Bianca, ma i singoli stati eleggono appunto un certo numero di delegati che esprimeranno poi il loro voto a favore di colui che ha ottenuto il maggior numero di preferenze nel loro stato di appartenenza.

La strategia di Trump per impedire l’insediamento di Biden puntava su una campagna mediatica per far credere che le elezioni fossero state caratterizzate da brogli e irregolarità. L’operazione avrebbe poi visto l’intervento del dipartimento di Giustizia con una raffica di indagini sui presunti brogli. Il tutto al fine di giustificare la sostituzione dei delegati statali regolarmente eletti con altri pronti a votare per Trump. Il vice-presidente, Mike Pence, avrebbe a sua volta dovuto bloccare la certificazione della vittoria di Biden durante il procedimento che era in corso a “Capitol Hill” il 6 gennaio 2021.

Uno degli aspetti più controversi della procedura di incriminazione appena ufficializzata è la scelta da parte di Jack Smith e del “grand jury” di citare sei complici dell’ex presidente senza però identificarli né accusarli formalmente di alcun reato. Anche senza indicarne esplicitamente i nomi, cinque di essi sono stati facilmente riconosciuti dalla stampa USA. Si tratta dei legali di Trump che hanno progettato l’intera operazione, ovvero Rudy Giuliani, John Eastman, Sidney Powell e Ken Chesebro. Il quinto è il funzionario del dipartimento di Giustizia Jeffrey Clark che, dall’interno del governo, aveva l’incarico di alimentare i dubbi sulla correttezza delle operazioni di voto.

Sia il fatto che nessuno di questi ultimi sia stato incriminato sia che non ci siano altri individui coinvolti nella causa conferma come l’intenzione del procuratore speciale e della stessa amministrazione Biden sia di limitare al massimo la portata del procedimento legale. Come aveva messo in luce la già ricordata commissione speciale d’indagine della Camera, il piano per sovvertire i risultati delle presidenziali del 2020 aveva trovato invece appoggio concreto nel Partito Repubblicano e dentro le stesse agenzie governative incaricate della sicurezza. Molti deputati repubblicani avevano infatti assecondato più o meno apertamente le manovre trumpiane, cercando anche di ostacolare il processo di ratifica della vittoria di Biden.

Ancora più inquietante è stato il ruolo di almeno alcune sezioni dell’apparato della sicurezza nazionale USA. Il dipartimento della Difesa aveva ad esempio ritardato l’invio al Congresso dei reparti della Guardia Nazionale nonostante le richieste disperate di intervento dei deputati sotto assedio e della polizia del Campidoglio. L’ipotesi più probabile è che nelle ore più calde dell’assalto al Congresso fossero in corso discussioni tra gli uomini di Trump e i vertici delle forze armate per sondare la disponibilità ad appoggiare il piano golpista. L’FBI, infine, aveva vari informatori nei gruppi paramilitari di estrema destra responsabili materialmente dell’attacco e, in parallelo, le attività di sorveglianza avevano fatto emergere prove evidenti dell’operazione che si stava preparando per il 6 gennaio 2021. Pur con tutte queste informazioni a disposizione, nulla era stato fatto per prevenire l’attacco o dispiegare maggiori forze di polizia al Congresso.

Questi interrogativi lasciano intendere che la motivazione principale dell’incriminazione di Trump, per quanto più che giustificata alla luce dei fatti, sia di natura politica. I tempi lunghissimi dell’indagine sono un altro segnale in questo senso, anche perché gli elementi di prova a carico dell’ex presidente erano emersi subito dopo gli eventi. È evidente quindi che la decisione del procuratore speciale sulle accuse legate all’attacco del 6 gennaio ha che fare con la necessità di colpire politicamente quello che resta il favorito per la nomination repubblicana.

I guai legali di Trump si sono moltiplicati negli ultimi mesi in concomitanza con il consolidamento della sua posizione di “front-runner” nella competizione interna al partito. Oltre che per i fatti di Capitol Hill, Trump è già stato incriminato formalmente lo scorso mese di giugno per avere trafugato documenti governativi riservati nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida e in precedenza per il pagamento di 130 mila dollari alla pornostar Stormy Daniels in cambio del silenzio su una relazione che avrebbe avuto con l’ex presidente.

Le imputazioni formulate ufficialmente contro Trump hanno in ogni caso rivelato alcuni dettagli interessanti della vicenda. Su tutti spicca la trascrizione di una conversazione tra un consigliere del presidente e il già ricordato Jeffrey Clark, che nella fase finale del mandato di Trump svolgeva funzione di assistente al ministro della Giustizia. Il primo spiegava che, se non fossero state trovate prove “significative” di brogli elettorali e Trump fosse rimasto ugualmente alla Casa Bianca, ci sarebbero state “rivolte in tutte le principali città americane”. Clark rispose che per questa eventualità c’era “l’Insurrection Act”, cioè la legge che consente al presidente di impiegare l’esercito sul territorio nazionale per soffocare ribellioni e violenze.

Lo scambio di battute testimonia di come Trump e i suoi uomini fossero consapevoli della sostanziale impopolarità del presidente uscente e delle manovre per ribaltare l’esito del voto di novembre 2020. Inoltre, l’avvertimento di Clark conferma come fosse intenzione dell’amministrazione repubblicana di ricorrere alla forza militare per consolidare il golpe in fase di preparazione. A Jeffrey Clark il 3 gennaio 2021 era stato offerto da Trump l’incarico di ministro della Giustizia ad interim, ma il presidente fu costretto a fare marcia indietro dopo che dai funzionari di vertice del dipartimento di Giustizia era arrivata la minaccia di dimissioni di massa se la nomina fosse stata finalizzata.

Nel complesso, il processo istruito nei confronti di Trump per i fatti del 6 gennaio 2021 avrà come obiettivo di fare dell’ex presidente l’unico responsabile della rivolta. Quasi a garantire che l’interpretazione degli eventi di martedì sia esattamente questa, i leader democratici alla Camera e al Senato – rispettivamente Hakeem Jeffries e Chuck Schumer – hanno rilasciato una dichiarazione nella quale spiegano senza mezzi termini che l’insurrezione è stata “orchestrata personalmente da Donald Trump”.

La strategia del Partito Democratico e dell’amministrazione Biden nasconde un’esigenza che, per la classe dirigente americana, va al di là della presunta difesa della democrazia. In questi trenta mesi di temporeggiamenti e depistaggi politici attorno agli eventi di Capitol Hill, la Casa Bianca e i leader democratici hanno protetto il Partito Repubblicano e l’apparato militare e dell’intelligence USA perché entrambi risultano fondamentali nella conduzione dell’offensiva anti-russa in corso con la guerra in Ucraina. A ciò è collegata anche la necessità di eliminare Trump politicamente, visto che la sua rielezione potrebbe mettere in pericolo la campagna in atto contro la Russia e il sostegno militare ed economico al regime di Zelensky.

L’attribuzione della responsabilità dell’accaduto praticamente al solo Trump rischia tuttavia di trasformarsi in un boomerang. L’ex presidente continua infatti a sfruttare a proprio favore quella che denuncia ogni singolo giorno come una persecuzione politica da parte dei suoi rivali e del “deep state”. Per il momento questa strategia continua a pagare, visto che i sondaggi più recenti evidenziano un vantaggio nettissimo per Trump nella competizione per la nomination repubblicana. Secondo la legge americana, d’altra parte, un’incriminazione per reati federali non impedisce la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti.

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