Il successo elettorale nel fine settimana del partito socialdemocratico (SMER-SD) dell’ex premier, Robert Fico, in Slovacchia non fa che confermare il progressivo spostamento dell’opinione pubblica e di parte della classe dirigente europea su posizioni più critiche nei confronti dell’integralismo filo-ucraino promosso da Washington. La formazione del nuovo governo è probabilmente lontana ancora di alcune settimane, ma le promesse del vincitore del voto di sabato scorso a proposito del conflitto in corso hanno già mandato in crisi l’amministrazione Biden e i vertici UE, assieme al regime di Zelensky, preoccupati per il diffondersi di una nuova tendenza in Europa che potrebbe a breve rallentare drasticamente il flusso di aiuti destinati al buco nero dell’Ucraina.

 

Fico ha cavalcato in campagna elettorale il malcontento crescente nel suo paese per le conseguenze economiche e sociali di una guerra interamente provocata dalla NATO. Da politico pragmatico, l’ex e probabile futuro primo ministro aveva così dichiarato che, in caso di vittoria, la Slovacchia non avrebbe più inviato “una singola munizione all’Ucraina”. Gli altri punti centrali del programma in relazione alla crisi sono l’impegno a cercare una soluzione diplomatica e la battaglia contro la furia sanzionatoria anti-russa di Bruxelles, in quanto controproducente per gli interessi slovacchi e non solo.

SMER-SD è tornato quindi a essere il primo partito slovacco, grazie al 23% dei consensi ricevuti, vale a dire circa sei punti in più rispetto al partito filo-europeista Slovacchia Progressista del vice-presidente del parlamento europeo, Michal Simecka. Il partito di Fico non ha ottenuto seggi sufficienti a governare in autonomia e necessiterà perciò di almeno un paio di partner per mettere assieme una maggioranza. Questa realtà, assieme alle pressioni europee e americane, potrebbe almeno in parte stemperare le posizioni socialdemocratiche sulla situazione ucraina.

La presidente della Slovacchia, Zuzana Caputova, ha intanto conferito a Fico l’incarico per la formazione del nuovo esecutivo. È probabile che l’attenzione del premier in pectore si concentri sul partito arrivato terzo, l’europeista Hlas (“Voce”) di centro-sinistra guidato da un altro ex primo ministro, Peter Pellegrini, e i populisti del Partito Nazionale Slovacco. Per raggiungere la maggioranza assoluta nel parlamento unicamerale slovacco sono necessari almeno 76 seggi e il totale dei tre partiti ammonterebbe a 79.

La prospettiva di un governo a Bratislava guidato da Robert Fico aveva da qualche tempo messo in agitazione l’Europa e gli Stati Uniti. Alla vigilia del voto, la Russia aveva sollevato pubblicamente la questione dell’interferenza americana nella campagna elettorale slovacca, con il ricorso a “ricatti e corruzione” per cercare di garantire al governo uscente un nuovo mandato. Il problema per Washington, Bruxelles e Kiev non è tanto il possibile venir meno del contributo materiale della Slovacchia alla sforzo bellico ucraino. Questo paese ha fornito al regime di Zelensky un certo numero di mezzi corazzati per il trasporto di soldati, obici e tutta la propria flotta di caccia MiG-29 di epoca sovietica, ma la gran parte degli equipaggiamenti militari occidentali ha evidentemente origine altrove.

Ciò che preoccupa è piuttosto l’allargamento della crepa nel fronte filo-ucraino e anti-russo in Europa, con la Slovacchia che potrebbe aggiungersi ai governi che hanno finora tenuto un atteggiamento relativamente neutrale o decisamente critico verso la linea imposta dagli USA, come l’Austria nel primo caso e l’Ungheria nel secondo. L’inversione di rotta promessa da Fico renderebbe più solida l’opposizione interna all’UE nei confronti dei futuri aiuti da inviare all’Ucraina o dei nuovi pacchetti di sanzioni contro la Russia.

A complicare le cose è il fatto che le elezioni in Slovacchia si inseriscono in un frangente caratterizzato da altri segnali non esattamente incoraggianti per Zelensky. La Polonia, fino a poche settimane fa tra i più accesi sostenitori della causa ucraina, ha recentemente operato una mezza giravolta annunciando che non invierà altre armi all’Ucraina. Il voto del 15 ottobre prossimo pesa infatti anche sul governo ultra-nazionalista di Varsavia, costretto a fare i conti con il venir meno dell’entusiasmo dei polacchi per una guerra evitabilissima. L’afflusso di rifugiati e di grano a basso costo dall’Ucraina hanno creato non pochi grattacapi all’esecutivo guidato dal partito Diritto e Giustizia (“PiS”), le cui fortune elettorali si fondano oltretutto in buona parte sul voto rurale.

L’altro fattore che gioca a sfavore di Kiev è l’ennesima crisi del bilancio negli Stati Uniti. Per evitare la chiusura degli uffici federali (“shutdown”), il Congresso americano ha appena approvato una misura provvisoria che stanzia fondi destinati a tenere in piedi la macchina del governo per circa un mese e mezzo, ma nel provvedimento, su insistenza della destra repubblicana, non è stata inserita la nuova tranche di aiuti per l’Ucraina voluti dalla Casa Bianca.

La leadership repubblicana alla Camera dei Rappresentanti avrebbe promesso ai democratici di portare separatamente in aula il pacchetto da oltre venti miliardi di dollari in armi e assistenza finanziaria destinati a Kiev. I deputati più vicini a Trump hanno però promesso battaglia e lo “speaker”, Kevin McCarthy, dovrà valutare con attenzione le conseguenze politiche di un eventuale via libera ai fondi con l’appoggio determinante del Partito Democratico.

Il nervosismo europeo per l’inevitabile diffondersi di un senso di sfiducia nelle possibilità dell’Ucraina sono apparse evidenti dalla visita di massa a Kiev dei ministri degli Esteri dei paesi membri e del numero uno della politica estera UE, Josep Borrell. L’ostentazione di compattezza e la retorica ufficiale che garantisce il fermo supporto al regime di Zelensky, nonostante il fallimento della “controffensiva”, tradiscono appunto una certa ansia per l’inizio della parabola discendente, in termini di popolarità, del “file” ucraino in Occidente.

Se anche l’evoluzione del quadro politico slovacco sarà tutta da verificare, è possibile ipotizzare una sorta di alleanza tra la Slovacchia sotto la guida di Robert Fico e l’Ungheria di Orban. Mentre entrambi vengono dipinti come filo-russi, se non addirittura marionette di Putin, la realtà parla piuttosto di un’attitudine moderata e pragmatica in politica estera, basata sulla promozione degli interessi dei rispettivi paesi e la necessità di resistere a politiche suicide dettate soltanto dalle priorità strategiche di Washington.

È comunque difficile prevedere nel brevissimo periodo un crollo del fronte guerrafondaio e, quindi, dell’appoggio all’Ucraina. Tuttavia, la costante erosione del consenso per il pensiero unico filo-ucraino in Europa e negli Stati Uniti potrebbe accelerare in parallelo all’ulteriore peggioramento della situazione economica in molti paesi e al succedersi di appuntamenti elettorali nei prossimi mesi, incluso quello per il rinnovo del parlamento europeo nel giugno 2024. Il possibile sfondamento russo nel teatro di guerra, una volta fallita definitivamente la rovinosa “controffensiva” ucraina, minaccia a sua volta di distruggere le restanti illusioni sulle potenzialità di Kiev e, alternativamente, aprire uno spiraglio verso la diplomazia o il coinvolgimento diretto delle forze NATO nel conflitto.

A Mosca, in ogni caso, le reazioni alla vittoria elettorale di Fico e dei socialdemocratici in Slovacchia sono state generalmente caute, almeno a livello esteriore. Su alcuni media russi si è sottolineata la tendenza verso un ammorbidimento della linea anti-russa sotto la spinta della crescente insofferenza popolare per le conseguenze della guerra. Allo stesso tempo, in pochi si fanno per il momento illusioni circa un cambiamento radicale dell’approccio alla crisi russo-ucraina. La testata on-line Vzglyad ha ad esempio fatto notare come le esigenze di campagna elettorale possono amplificare i proclami di natura populista o sovranista, mentre, una volta installatosi, il nuovo governo di turno evidenzia un atteggiamento più moderato o addirittura opposto rispetto a quello promesso. L’appartenenza all’UE e alla NATO contribuisce a spiegare questa metamorfosi e il sito russo porta come esempio di voltafaccia in senso atlantista quello del governo italiano di Giorgia Meloni.

Da Bratislava c’è quanto meno da aspettarsi un attenuamento della retorica anti-russa e, comunque, il dato del voto di sabato scorso indica un chiaro spostamento in corso dell’opinione delle popolazioni europei sulla guerra in Ucraina. Intanto, è quasi scontato che UE e Stati Uniti torneranno alla carica con le accuse, a quei governi che non si uniformano alla linea anti-russa, di tendenze autoritarie che minaccerebbero il “modello liberale democratico” occidentale. L’Ungheria di Orban è da tempo il bersaglio preferito in questo senso e i primi segnali minacciosi hanno già riguardato anche il premier designato slovacco.

Un altro obiettivo della finta crociata democratica di Bruxelles è l’esecutivo ultra-conservatore polacco, in passato oggetto di provvedimenti comunitari e più recentemente tornato nelle grazie europee per via dell’appoggio garantito a Kiev e della ferocissima russofobia ostentata dai leader del partito al potere. Se, in caso di conferma dell’esecutivo in carica, dopo il voto del 15 ottobre Varsavia dovesse orientarsi definitivamente su posizioni critiche verso Kiev, è molto probabile che il “problema democratico” in Polonia tornerà in fretta al centro degli scrupoli altamente selettivi dei burocrati e delle cancellerie europee.

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