Al di là delle implicazioni strategiche e politiche, l’attacco senza precedenti lanciato contro lo stato sionista dalla resistenza palestinese a partire dalla nottata di venerdì rappresenta un atto di rivolta legittimo contro il regime di occupazione. Le ragioni che hanno portato alla sconvolgente esplosione di violenza in Medio Oriente sono universalmente note, mentre l’ultima provocazione di Israele risale solo ad alcuni giorni fa con la marcia di centinaia di coloni ebrei sul sito sacro ai musulmani della moschea di Al-Aqsa grazie alla protezione delle forze di polizia. Anche se è per il momento difficile prevedere se il conflitto che ne è seguito si allargherà a tutta la regione o resterà circoscritto e di breve durata, i riflessi che avrà sugli equilibri mediorientali si possono già da ora ipotizzare, a cominciare da quelli sul processo di “normalizzazione” in atto – quanto meno fino a pochi giorni fa – tra Israele e alcuni paesi arabi.

 

Molti commentatori in Occidente e in Medio Oriente hanno avvertito che i fatti di queste ore minacciano di dare il colpo di grazia alla fase cruciale dei cosiddetti “Accordi di Abramo”, vale a dire l’instaurazione di normali relazioni diplomatiche tra lo stato ebraico e l’Arabia Saudita. Questo processo sembrava avere fatto segnare progressi proprio nelle ultime settimane e le questioni in sospeso riguardavano principalmente proprio la risoluzione della questione palestinese, assieme alle garanzie di sicurezza chieste da Riyadh a Washington, nonché la creazione di un programma nucleare civile saudita.

In merito alla Palestina, la monarchia wahhabita ha anche recentemente ribadito il rispetto delle condizioni fissate nell’Iniziativa di Pace Araba del 2002, secondo le quali il riconoscimento diplomatico di Israele da parte dei paesi arabi doveva passare dall’istituzione di uno stato palestinese. C’erano però segnali che i sauditi avrebbero finito per accettare qualche concessione fatta ai palestinesi dal governo Netanyahu in cambio della “normalizzazione” dei rapporti bilaterali.

Quella che per la “comunità internazionale” sembrava un successo a portata di mano, per i palestinesi era invece un avvertimento. Un eventuale accordo tra Arabia Saudita e Israele, con la mediazione americana, non sarebbe stato infatti un progresso verso la liberazione dall’oppressione dello stato ebraico, bensì un passo indietro che avrebbe messo in piedi l’ennesima farsa del processo di pace per rimandare all’infinito la questione dell’autodeterminazione palestinese. Il tutto attraverso il collaborazionismo dell’ultra-screditata Autorità Palestinese e del suo presidente, Mahmoud Abbas (Abu Mazen).

Non c’è dubbio che i vertici di Hamas vedano nella “normalizzazione” un tentativo di indebolire e mettere da parte la stessa organizzazione che governa Gaza e le altre formazioni della resistenza palestinese. Il livello di pianificazione e lo sforzo che ha richiesto l’operazione iniziata venerdì è tuttavia anche la conseguenza di una progressiva radicalizzazione e di un compattamento evidente del popolo palestinese attorno alla vera resistenza anti-sionista e che, per contro, renderà complicata qualsiasi risposta militare israeliana nonostante la differenza di potenziale tra le due parti.

L’opposizione palestinese alla normalizzazione con i sauditi è da ricondurre alla consueta disonestà di Israele e Stati Uniti, con Netanyahu che intendeva evidentemente raccogliere i frutti della diplomazia senza cedere in pratica nulla sul fronte della Palestina. Malgrado i segnali di una resistenza crescente e la maggiore intraprendenza dei gruppi palestinesi autonomi negli ultimi mesi, è probabile che lo stato ebraico riteneva di essere in grado di soffocare la rivolta, così da evitare un confronto con gli alleati di estrema destra sul fronte domestico, ancora meno disposti a fare concessioni, sia pure di natura puramente simbolica.

La realtà a cui Hamas ha messo di fronte Arabia Saudita, Israele e Stati Uniti è quindi abbastanza chiara. In Israele, un bilancio di morti che, molto probabilmente, supera già le mille unità comporta un ulteriore irrigidimento dei partner di governo ultra-radicali di Netanyahu, rendendo inconcepibile anche solo un dibattito su possibili concessioni ai palestinesi. Dall’altro lato, in assenza di contropartite a favore dei palestinesi, l’approccio saudita alla normalizzazione deve essere ripensato completamente. Anzi, nel nuovo quadro venutosi a creare, cioè con Israele che bombarda indiscriminatamente per ritorsione le strutture civili di Gaza e minaccia di sigillare la striscia e i suoi due milioni di abitanti, Riyadh non può che tenere in considerazione l’attitudine dell’opinione pubblica araba e interrompere, almeno a livello ufficiale, ogni trattativa con lo stato ebraico. Infatti, lunedì alcuni media mediorientali hanno dato la notizia della decisione saudita di interrompere i negoziati con Washington e Tel Aviv. Il governo di Riyadh ne avrebbe informato il dipartimento di Stato in concomitanza con l’aggravarsi della crisi a Gaza e in Israele.

Tutti questi calcoli sono stati senza dubbio in cima ai pensieri della leadership di Hamas e, forse, del governo iraniano che qualcuno ritiene essere dietro l’attacco contro Israele tuttora in corso. Altri osservatori ancora hanno fatto notare come l’operazione della resistenza finirà per risolversi in un nuovo bagno di sangue palestinese a Gaza, tanto più che l’amministrazione Biden si è subito impegnata ad assistere Israele con il trasferimento degli equipaggiamenti militari che risulteranno necessari.

È fuori discussione che il bilancio di vittime sarà alla fine nettamente superiore sul fronte palestinese. Tuttavia, al di là della retorica sionista, ci sono oggettive difficoltà per Tel Aviv, soprattutto se in programma vi è realmente un’invasione di terra a Gaza. Tanto per cominciare, Hamas ha fatto in questi giorni centinaia di prigionieri israeliani la cui sorte sarebbe segnata con l’ingresso dei carri armati dello stato ebraico nella striscia. Sul terreno, le forze israeliane sono inoltre attese da una feroce guerriglia urbana che, allo stesso modo, causerebbe un numero molto alto di vittime tra i militari. Le ripercussioni politiche per Netanyahu, già sotto attacco per non avere previsto l’offensiva di Hamas, sono facili da immaginare. Tutta da verificare è anche la promessa di distruggere Hamas, visto che la strage che si annuncia a Gaza alimenterebbe ancora di più l’odio contro Israele di un popolo che non ha più nulla perdere.

Dal punto di vista militare, poi, l’incognita maggiore è rappresentata dalle posizioni di Hezbollah in Libano. Il “Partito di Dio” ha promesso sostegno alla resistenza palestinese e domenica ha colpito alcune postazioni israeliane nell’area occupata delle Fattorie di Shebaa occupate. L’ingresso diretto nel conflitto di Hezbollah cambierebbe totalmente le carte in tavola per Tel Aviv e, infatti, dalla stampa israeliana sta trapelando l’inquietudine degli ambienti di governo e militari per la possibile apertura del fronte settentrionale.

Spostando ancora più in là le ipotesi, il coinvolgimento del partito-milizia sciita libanese potrebbe trascinare nella guerra, oltre agli Stati Uniti, altri attori regionali, dalla Siria all’Iran, dallo Yemen controllato dagli Houthis fino addirittura alle fazioni sciite irachene. Anche lasciando da parte le conseguenze materiali di una conflagrazione di questo genere, è chiaro che Israele ne uscirebbe ancora più isolato e gli auspici di normalizzazione verrebbero frantumati definitivamente.

In tutti i casi, i fatti in corso a Gaza e in Israele testimoniano del fallimento su tutta la linea del governo di Washington. La Casa Bianca, rilanciando un progetto di Trump, puntava a riprendere in mano il controllo strategico del Medio Oriente attraverso il processo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Con la consueta miopia e arroganza che caratterizza la politica estera americana, sono stati però trascurati fattori decisivi, a cominciare dalla crescente predisposizione alla rivolta del popolo palestinese e il vastissimo sostegno che la causa di quest’ultimo continua a raccogliere tra le popolazioni arabe.

Un’analisi pubblicata dal sito web del think tank americano Quincy Institute for Responsible Statecraft ha posto in termini simili la questione. Secondo l’autore, “nonostante gli sforzi per ridimensionare [l’importanza del] conflitto israelo-palestinese e mettere in un angolo la questione attraverso accordi di pace con i paesi arabi, il conflitto e le sue conseguenze destabilizzanti non verranno cancellati”. Il tentativo di “scoraggiare le aspirazioni nazionaliste [palestinesi] non determina il dissolvimento di queste stesse aspirazioni, né può cancellare il risentimento per l’oppressione di un popolo”.

Sempre per quel che riguarda le responsabilità americane, al disinteresse per la sorte palestinese va aggiunta l’incapacità di leggere la temperatura della regione in conseguenza delle proprie politiche. Ciò è dimostrato, tra l’altro, da un recente citatissimo intervento pubblico del consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan. Parlando nel corso di un evento organizzato dalla rivista The Atlantic appena una settimana prima dell’inizio dell’offensiva di Hamas, il braccio destro di Biden aveva concluso che “la regione mediorientale è oggi in uno stato di quiete tale come mai era accaduto negli ultimi due decenni”.

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