L’accordo per un cessate il fuoco provvisorio a Gaza, raggiunto tra Hamas e Israele con la mediazione egiziana e del Qatar, potrebbe portare almeno un breve sollievo alla popolazione palestinese sotto il ferocissimo assedio sionista. La tregua favorirà uno scambio parziale di prigionieri ed è il risultato in primo luogo delle crescenti pressioni internazionali, ma anche interne, sul regime di Netanyahu. In Occidente sono in molti ad avere espresso un cauto ottimismo a proposito del momentaneo stop ai combattimenti, ma non sembrano esserci elementi concreti per sperare in una soluzione pacifica di lunga durata. La “pausa umanitaria” potrebbe anzi essere sfruttata da Israele per riorganizzare le forze e ricalibrare l’offensiva genocida contro la Resistenza e la popolazione palestinese nella striscia.

 

Hamas dovrebbe rilasciare una cinquantina di cittadini israeliani fatti prigionieri durante l’attacco a sorpresa del 7 ottobre scorso, mentre da Tel Aviv ci si aspetta la liberazione di 150 palestinesi. Tutti i prigionieri interessati dallo scambio saranno donne e minori. Secondo i media israeliani, l’accordo potrebbe essere implementato a partire da giovedì, ma è atteso un parere della Corte Suprema israeliana in risposta ai ricorsi già presentati contro di esso.

Israele pubblicherà inoltre un primo elenco di detenuti palestinesi destinati a essere rilasciati, così da consentire eventuali ricorsi contro la liberazione. La tregua potrebbe essere prorogata nel caso Hamas decidesse di consegnare a Israele altri prigionieri, oltre a quelli previsti per la prima fase. Ogni ulteriore gruppo di almeno dieci “ostaggi” implicherebbe il prolungamento del cessate il fuoco di un giorno.

Durante i quattro giorni di stop alle attività militari da entrambe le parti, non ci saranno nemmeno movimenti di veicoli israeliani a Gaza né voli di ricognizione nella parte meridionale della striscia. Nella porzione settentrionale del territorio palestinese, questi ultimi saranno consentiti invece solo per sei ore al giorno. Allo stesso modo, le forze di occupazione sioniste si asterranno dall’eseguire arresti o dall’assassinare militanti o civili. Per quanto riguarda l’aspetto umanitario, dal valico meridionale di Rafah dovrebbero entrare a Gaza centinaia di convogli con cibo, medicinali e carburante. Oltre a Hamas, anche la Jihad Islamica rispetterà l’accordo sottoscritto con Israele, mentre Hezbollah in Libano dovrebbe a sua volta rispettare i termini del cessate il fuoco.

La notizia del via libera alla tregua momentanea è arrivata nella mattinata di mercoledì dopo l’approvazione da parte del gabinetto Netanyahu. Dentro al governo sionista ci sono state quasi certamente tensioni e i ministri della destra radicale hanno alla fine votato contro il cessate il fuoco. A favore si sono invece espressi i vertici di tutti e tre i servizi di sicurezza di Israele: forze armate, Shin Bet (intelligence interna) e Mossad (intelligence esterna).

Non è da escludere che un ruolo importante lo abbia giocato il livello di perdite registrato dalle forze armate israeliane a partire dall’invasione di terra a Gaza, molto più alto di quanto facciano pensare i dati ufficiali. Se così fosse, è possibile che a Tel Aviv si cerchi una pausa anche per rimodulare la strategia militare da applicare nella striscia.

Molti osservatori si sono chiesti quali contropartite possano essere state promesse da Netanyahu ai membri di ultra-destra del governo in cambio della tregua. Il premier, in ogni caso, per allentare le pressioni ha tenuto a precisare che le operazioni militari riprenderanno al termine del breve periodo di stop alle ostilità. Gli obiettivi stabiliti, ha assicurato Netanyahu, saranno perseguiti fino alla fine.

Non sono comunque solo le minacce di Netanyahu a rendere cupe le prospettive per una possibile tregua permanente. L’intesa favorita dal Qatar s’innesta d’altra parte in una situazione caratterizzata dalla pericolosa escalation dello scontro in Medio Oriente. Gli ultimi giorni hanno visto infatti aumentare lo scambio di artiglieria tra Israele e Hezbollah al confine con il Libano, così come l’ingresso di fatto nel conflitto degli Houthis (Ansarallah) yemeniti e l’intensificazione delle attività delle milizie sciite irachene contro le basi militari americane in Siria e nello stesso Iraq.

Tutte queste dinamiche indicano un aggravarsi della crisi regionale, a causa principalmente degli obiettivi massimalisti di Israele nell’assalto a Gaza e del vicolo cieco in cui si è infilato un Netanyahu diviso tra le pressioni internazionali e una situazione domestica che presenta rischi politici – e giudiziari – enormi se la guerra dovesse cessare senza la totale eliminazione di Hamas.

Il relativo ottimismo che circola soprattutto in Occidente sembra inoltre confondere le acque, anche per via delle molto caute critiche rivolte da Washington a Israele in merito alle continue stragi di civili. Se è possibile che l’amministrazione Biden veda con apprensione crescente l’eventuale allargamento del conflitto, con la partecipazione a tutti gli effetti di Hezbollah o addirittura dell’Iran, l’approccio americano alla crisi è chiaramente fuorviante.

In primo luogo, gli sforzi della Casa Bianca per convincere Netanyahu ad accettare una tregua parziale rispondono alla necessità di offrire un risultato concreto, ancorché momentaneo, a quanti in America, dentro e fuori il governo, spingono per restringere il margine di azione di Israele. Questa esigenza riflette i problemi di Netanyahu, che da settimane deve fare i conti con le manifestazioni dei famigliari degli israeliani prigionieri di Hamas, che chiedono un’iniziativa efficace per la loro liberazione.

È inoltre probabile che gli Stati Uniti stiano provando a lanciare falsi messaggi distensivi al fronte della Resistenza, nella speranza di convincere i vari attori coinvolti nella crisi a desistere dal partecipare direttamente al conflitto contro il regime sionista. Per Hezbollah, Iran, Siria e le milizie sciiti irachene contano però più i fatti che le parole e la massiccia mobilitazione di forze USA in Medio Oriente, assieme alla costante fornitura di armi a Israele in supporto del genocidio in corso a Gaza, significano il persistere di un’attitudine tutt’altro che pacifica.

Sono precisamente le operazioni dei sostenitori della causa palestinese a rappresentare l’altro fattore decisivo nell’avere convinto Israele – e gli Stati Uniti – ad accettare la tregua appena concordata. Nel momento in cui l’offensiva israeliana dovesse riprendere, il fronte di guerra più ampio con la Resistenza tornerà però a infiammarsi e a costituire il principale fattore di rischio per una possibile conflagrazione regionale. Un’analisi della crisi pubblicata martedì dal sito libanese The Cradle ha indagato proprio le ramificazioni del conflitto e i delicati equilibri che rischiano di crollare e fare esplodere una guerra di vasta portata in Medio Oriente.

Secondo “l’Asse della Resistenza”, si legge nell’articolo, gli USA e Israele cercano “una guerra prolungata” a Gaza, così da “trasformare la striscia in un campo di battaglia permanente” e fare in modo che il regime sionista torni a sentirsi sicuro dalla minaccia palestinese. Sull’altro fronte, la Resistenza continua invece a “percorrere tutte le strade [possibili], inclusa l’opzione militare, per promuovere e accelerare un cessate il fuoco [permanente] a Gaza”.

Dal punto di vista politico, per Netanyahu la tregua provvisoria comporta rischi considerevoli e non solo per il parere contrario dei partner di governo ultra-radicali. Dopo quasi cinquanta giorni di massacri deliberati, l’opposizione al regime sionista della comunità internazionale sta rapidamente aumentando e un’eventuale pausa dall’orrore quotidiano, anche se per un breve periodo, minaccia di rendere ancora più onerosa moralmente e politicamente per Israele la ripresa delle stragi di civili palestinesi.

Lo stesso governo americano deve avere valutato attentamente i “rischi” derivanti dal cessate il fuoco per la strategia genocida di Netanyahu. Un articolo pubblicato martedì dalla testata on-line Politico ha infatti rivelato come l’amministrazione Biden abbia sollevato qualche perplessità circa le “conseguenze inaspettate” della tregua con Hamas.

La pausa di qualche giorno dai combattimenti consentirebbe cioè l’ingresso senza impedimenti a Gaza di un numero consistente di giornalisti, in grado di testimoniare e mostrare ulteriormente al mondo il livello di distruzione causato dallo stato ebraico. L’esibizione della verità sui crimini mostruosi di Israele rischierebbe quindi di intensificare l’ostilità dell’opinione pubblica internazionale verso il regime sionista, complicando i piani di pulizia etnica di Tel Aviv nella striscia e gli obiettivi americani nell’alimentare un pericolosissimo conflitto nella regione mediorientale.

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