Con la guerra a Gaza che rischia di trasformarsi in un pantano inestricabile, il primo ministro israeliano Netanyahu ha dovuto incassare all’inizio dell’anno una clamoroso umiliazione dalla Corte Suprema. Il più alto tribunale dello stato ebraico ha infatti annullato la prima e finora unica legge della “riforma” del sistema giudiziario di Israele approvata dalla maggioranza di ultra-destra che sostiene il governo di Tel Aviv.

 

Per la prima volta nella sua storia, la Corte Suprema ha cancellato una legge “fondamentale” dell’ordinamento israeliano, ovvero che ha valore quasi costituzionale in un paese che non dispone di una vera Costituzione scritta. La legge, che intendeva limitare il riferimento al principio di “ragionevolezza” nella facoltà della Corte di cassare determinate leggi emanate dal Parlamento (“Knesset”), aveva appunto questa caratteristica e rappresenta perciò un precedente cruciale, nonché minaccia un grave scontro istituzionale in un momento di profonda crisi per lo stato ebraico.

La legge era stata approvata la scorsa estate e rientrava nel progetto dell’esecutivo di estrema destra di rimodellare la natura stessa della società israeliana, limitando il controllo giudiziario sulla politica, con l’obiettivo di imprimere una svolta autoritaria e religiosamente fondamentalista. Nel concreto, il provvedimento appena bocciato puntava a indebolire drasticamente il principio della separazione dei poteri, privando la Corte Suprema della facoltà di giudicare ed eventualmente annullare leggi in base al già citato principio di “ragionevolezza”, cioè, in sostanza, quei provvedimenti che non garantiscono il giusto equilibrio tra l’interesse pubblico e quello politico.

La bocciatura della legge voluta da Netanyahu e dai suoi alleati è stata ratificata da una maggioranza ristretta di 8 giudici contro 7. Ancora più importante è stato però un altro verdetto emesso in concomitanza con il primo, relativo al potere della Corte Suprema di esprimersi in maniera vincolante sulle leggi “fondamentali” di Israele. Su quest’ultima questione hanno votato a favore 12 giudici su 15, fissando quindi un principio determinante negli equilibri istituzionali dello stato ebraico.

Fin dalla sua introduzione, la “riforma” giudiziaria di Netanyahu aveva scatenato un accesissimo dibattito e proteste oceaniche in Israele. In gioco c’era appunto il controllo sul potere legislativo e la facoltà del parlamento di modificare e introdurre leggi semi-costituzionali con una maggioranza semplice. Lo scorso marzo, il governo aveva momentaneamente sospeso l’iter della legge proprio in conseguenza delle manifestazioni popolari e di una crescente spaccatura nei vari organi dello stato. Soprattutto nelle forze armate era iniziato un limitato boicottaggio, in seguito al quale molti riservisti avevano minacciato di non rispondere alla chiamata in caso di mobilitazione militare.

Le trattative con l’opposizione per trovare un compromesso sulla “riforma” non avevano tuttavia dato alcun frutto e a luglio la legge è stata alla fine approvata in via definitiva. Netanyahu aveva comunque messo da parte altri provvedimenti che facevano inizialmente parte del pacchetto legislativo studiato dalle componenti di estrema destra della sua maggioranza. Tra le più controverse figuravano quella che assegna il controllo pressoché totale alla maggioranza parlamentare di turno sulle nomine in ambito giudiziario e la cancellazione della facoltà di revisione da parte dei tribunali di tutte le leggi licenziate dalla “Knesset” e non solo di quelle “fondamentali”.

Gli oppositori di Netanyahu e della legge appena bocciata hanno celebrato la sentenza come una vittoria della democrazia in Israele. Il genocidio in corso a Gaza esclude evidentemente di per sé la natura “democratica” dello stato ebraico. Ma, anche senza tornare sulla natura del progetto sionista, il ruolo della Corte Suprema di Israele si è spesso scontrato frontalmente con i più basilari principi che dovrebbero contraddistinguere un paese democratico. Il tribunale, solo per citare il caso più clamoroso, aveva ad esempio approvato la cosiddetta legge sullo “Stato-Nazione”, che fissa di fatto l’apartheid e la discriminazione dei palestinesi come principi fondamentali dello stato ebraico. Nel 2020, inoltre, la stessa Corte aveva dichiarato legittima, con un voto all’unanimità, la nomina di Netanyahu a primo ministro nonostante fosse già stato incriminato per corruzione.

Il tempismo del verdetto del più alto tribunale israeliano solleva in ogni caso alcuni interrogativi importanti. In molti ipotizzano un intervento tutto politico per indebolire il primo ministro in un contesto generale segnato dall’assenza di un percorso praticabile per mettere fine a una guerra che sta rapidamente isolando lo stato ebraico a livello internazionale.

Due dei giudici che hanno votato contro la legge di “riforma” della Giustizia, tra cui la presidente della Corte Esther Hayut, abbandoneranno definitivamente i loro incarichi a breve per raggiunti limiti di età e, se avessero voluto evitare un nuovo violento scontro politico durante il conflitto, i tempi della sentenza avrebbero potuto essere allungati così da permettere la loro uscita di scena e, forse, un voto favorevole al governo.

Resta ora l’incognita di come reagiranno gli alleati dell’ultra-destra di Netanyahu alla bocciatura di un elemento chiave del loro progetto politico. Ciò potrebbe avere riflessi sull’attività e la sopravvivenza del governo, visto che elementi come i ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalez Smotrich già minacciano di far crollare l’esecutivo se ci saranno arretramenti nell’aggressione contro Hamas e i palestinesi nella striscia di Gaza.

Ci sono comunque svariati segnali che l’attuale situazione non sarà sostenibile a lungo. Delle scorse ore è ad esempio la notizia che Israele ha deciso di ritirare almeno due brigate, ovvero qualche migliaia di uomini, da Gaza in quella che sarebbe la prima riduzione del contingente di terra impiegato nel massacro della popolazione palestinese dopo i fatti del 7 ottobre 2023. Ufficialmente, le ragioni offerte dai vertici militari sono le conseguenze economiche della guerra, visto che decine di migliaia di riservisti hanno forzatamente abbandonato i propri posti di lavoro, e la necessità di programmare nuovi addestramenti.

In realtà, è probabile che il provvedimento segni l’inizio di un riassestamento della condotta bellica a Gaza. Il governo americano spinge infatti da tempo per una nuova strategia e il passaggio a operazioni di minore intensità. Non è da escludere poi che la decisione sia almeno in parte la conseguenza delle pesanti perdite che le forze sioniste stanno subendo per mano di Hamas, anche se a livello ufficiale il governo e il ministero della Difesa di Israele continuano a nascondere il numero reale di morti e feriti registrati dall’inizio dell’aggressione ormai quasi tre mesi fa.

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