Iran, Libano, Siria, Irak. Il Medioriente e il Golfo sono sotto gli attentati commessi da Israele e Stati Uniti, direttamente o per procura. Gli Stati Uniti dichiarano la loro estraneità o dicono che Israele non li aveva informati. Dunque la CIA, che dispone di enormi risorse e di un altissimo livello di penetrazione nelle istituzioni regionali e nella comunità diplomatica di quella parte del mondo, nonché di una rete di alleanze operative con vari Paesi, non vede e non sa nulla. Se così fosse, dovremmo prendere atto di un profondo cambiamento nella partita che i servizi segreti occidentali stanno giocando a sostegno di Israele e dei suoi interessi nella regione. Se così non fosse, significherebbe che gli Stati Uniti stanno provocando l'Iran di concerto con Israele e perseguono l'obiettivo di coinvolgerlo sempre di più nel conflitto israelo-palestinese.

 

La rivendicazione dell’Isis non ha convinto nessuno e per diverse ragioni, la prima della quale è che l’Isis rivendica i suoi attentati in tempo reale e non 24-48 ore dopo, poi è arduo credere sia all’autenticità della realizzazione del duplice attentato. Per lo stato in cui versa oggi, l'Isis non appare in grado di progettare e realizzare un operativo di quel livello. E questo non perché all’atto pratico sia di insuperabile difficoltà la sua realizzazione, quanto perché un’azione così, in questo momento e verso l’Iran, oltre a una capacità sul terreno richiede una copertura politica a monte, della quale Daesh non gode avendo perso i due suoi alleati di un tempo: Ankara e Ryad.

Il quadro delineatosi nel Golfo, vede l’Arabia Saudita (che dell’Isis è stata ispiratrice e finanziatrice, insieme alla Turchia) con un profilo diverso da quello di solo un anno fa: la riapertura delle relazioni diplomatiche con Teheran e il suo ingresso nei BRICS, i contrasti marcati con il governo USA e i crimini israeliani, disegnano un contesto molto diverso da quello passato.

 

I piani di Israele e USA

Non sfugge che il duplice attentato sia arrivato a ridosso degli annunciati colloqui per una tregua a Gaza che Netanyahu non vuole nemmeno prendere in considerazione e se si considera che in tutta la storia del Daesh non vi sono tracce di scontri con Israele, il quadro si fa più orrido ma anche più chiaro.

Visto che l’obiettivo di questi ultimi attacchi è l’Iran, bisogna chiedersi a chi giova un’escalation del conflitto con il coinvolgimento diretto di Teheran. I nemici dell’Iran sono sostanzialmente Stati Uniti e Israele, anche se, apparentemente, con approcci diversi. Certo, anche le monarchie del Golfo per principio vedrebbero di buon occhio un ridimensionamento iraniano, ma il timore di una espansione ai loro regni di un possibile conflitto gli sconsiglia spinte in direzione della guerra e in questa fase restano decisamente più interessate alla convivenza che non allo scontro con l’Iran. Le trasformazioni in corso nell’area e nel rapporto diretto con gli Ayatollah, suggeriscono infatti grande prudenza a Ryad nell’assecondare i piani israelo-statunitensi che sarebbero pronti a dare l’assalto a Teheran senza preoccuparsi delle ripercussioni generali sulla governance nell’area del Golfo.

Sono piani che, dettaglio in più o in meno, prevedono lo stesso scenario: mettere in ginocchio l’Iran con tutto ciò che questo comporta, dalla rete guerrigliera sciita fino alla Siria e al rapporto ormai consolidato con Mosca, con la quale lo scambio militare è di tutto rispetto. Piegare l’Iran comporterebbe un nuovo disegno degli equilibri politici, un nuovo scenario militare e vedrebbe anche un assetto interno all’Opec in parte modificato e da tempo non più sotto il controllo politico occidentale.

A sostenere con forza l’idea di una resa dei conti generali con i suoi nemici, c’è appunto Israele, soprattutto (ma non solo) la destra religiosa che governa con Netanyahu. Iran, Libano, Siria e Irak sono lo scenario dell’espansione della guerra che vuole Israele. Che crede che il dispiegamento attuale delle sue forze armate e l’appoggio degli USA possano permettere una vittoria su larga scala.

Seguendo l’insegnamento di Tucidide, credono che l’Iran, fiaccato dall’embargo occidentale, possa essere battibile adesso in quanto carente nelle risorse finanziarie, politiche e militari necessarie per fronteggiare un attacco concentrico di Israele ed USA, ma che lasciandogli il tempo di proseguire nella sua crescita militare, Teheran nel breve-medio termine potrebbe diventare un nemico molto più attrezzato e potente di quanto non lo sia ora e ritengono quindi un vantaggio costringerlo oggi alla guerra, se spalleggiati da USA e GB. In sostanza, si tratterebbe di innalzare ulteriormente una crisi già in atto e di approfittare di un’impotenza conclamata della comunità internazionale nell’impedirla.

Tralasciando l’ennesimo orrore in disprezzo del Diritto internazionale di cui si macchierebbe l’Occidente collettivo in una guerra contro l’Iran, pur non essendo questa la sede per valutazioni di ordine militare circa le possibilità di successo dell’aggressione, c’è da dire che l’idea per la quale sconfiggere l’Iran sia alla portata è un’idea decisamente sbagliata, figlia di un calcolo ideologico privo di riscontri storici e militari.

Il governo Netanyahu ritiene che la sorte di Gaza possa essere replicata a Teheran e propongono un attacco imminente, sostenendo che entro cinque anni l’Iran avrà sviluppato la quota di arricchimento del plutonio utile per l’utilizzo del nucleare a fini militari. Ma il fanatismo sionista dovrebbe capire che Gaza non è Teheran. Una comunità occupata non somiglia in nulla ad un grande Paese sovrano e potente. La produzione bellica e le tecnologie militari iraniane (di primo livello) e il sostegno che gli Ayatollah riceverebbero da Mosca e Pechino, così come la dislocazione dei suoi alleati renderebbe bilanciato uno scontro che a Tel Aviv qualcuno invece immagina come sbilanciato a suo favore e quindi scontato nel suo esito.

Identico errore si commetterebbe oggi al pensare che la regione ne uscirebbe indenne. Anche solo il blocco dello Stretto di Hormuz, dove transita il 40% del petrolio mondiale, sarebbe un disastro per gli aggressori perché colpirebbe in primo luogo l’Occidente, già provato dalla fine delle forniture russe.

E allora, dato che gli strateghi occidentale sanno bene qual è lo scenario che li aspetta, cosa spinge al cercare la guerra con l’Iran? Cosa fa credere che l’Occidente potrebbe sostenere un’avventura difficilissima, a maggior ragione perché fiaccato pesantemente dalla sconfitta della Nato in Ucraina? L’idea è quella di una operazione necessaria con motivazioni ben più ampie che il Medio Oriente: l’obiettivo sarebbero i BRICS.

Nei calcoli che vengono fatti a Washington e a Londra una guerra contro l’Iran comporterebbe una destabilizzazione devastante per il nuovo quadro di alleanza che si è formato nel Golfo Persico dove il rafforzamento dell’influenza russa e cinese ha contribuito a ridisegnare i precedenti assetti filo-occidentali. Metterebbe a dura prova il sodalizio militare tra Iran e Russia, l’appena riaperto dialogo con l’Arabia Saudita e il ruolo politico e diplomatico della Cina nell’area.

Una crisi militare potrebbe determinare due uscite: o l’inizio di un conflitto totale tra Nord e Sud, pur combattuto in un quadro regionale e che possa innalzarsi anche ad un conflitto nucleare in ambito limitato, o un effetto destabilizzatore sulla ancor timida unità politica dei BRICS fino al punto di far crollare l’alleanza tra le nazioni che gli hanno dato vita e che lo stanno rendendo ogni giorno che passa più forte. Ma anche qui i calcoli occidentali sarebbero sbagliati: il processo di costruzione del mondo multipolare è più avanti di quanto immaginano e non vi sono possibilità di invertirne la rotta.

Insomma se in Israele prevale la volontà di colpire l’Iran, Washington interesserebbe maggiormente destabilizzare i BRICS. Due obiettivi intrecciati che potrebbero divenire, ora o più avanti, un progetto comune. L’urgenza per gli USA di dover contrastare e possibilmente fermare la de-dollarizzazione dell’economia internazionale, premessa e al tempo stesso conseguenza della crescita dell’influenza economica e politica dei BRICS, trova spazio in alcuni dei think tank statunitensi più vicini al Partito Democratico. Che, come la storia insegna, invece di esplorare percorsi di pace e convivenza, si cimentano in progettare guerre che vengono poi regolarmente perse.

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