Come ampiamente previsto, Donald Trump e Joe Biden hanno vinto quasi tutte le primarie americane in programma questa settimana nel consueto appuntamento del “Supermartedì”. Sacche di resistenza alle due inevitabili candidature restano tuttavia tra elettori e leader di entrambi i partiti, anche se le modalità con cui possono trovare espressione appaiono decisamente limitate. Nel Partito Repubblicano, l’unica rivale di Trump rimasta in corsa – Nikki Haley – ha annunciato il ritiro dalla competizione dopo che martedì aveva vinto una sola sfida e in uno stato tutt’altro che determinante. In casa democratica continua invece a essere la denuncia della complicità della Casa Bianca nel genocidio palestinese la principale forma di opposizione al presidente Biden.

A livello puramente statistico, Trump non ha ancora ottenuto il numero di delegati (1.215) sufficienti a garantirsi aritmeticamente la nomination nella convention repubblicana di luglio, ma questa formalità sarà soddisfatta dopo le competizioni delle prossime settimane. La vittoria di Nikki Haley in Vermont, che segue quella di pochi giorni fa nelle primarie della capitale, non ha avuto alcun effetto sugli equilibri della corsa. L’ex governatrice del South Carolina ha preso atto mercoledì dell’impossibilità di proseguire, ma nella conferenza stampa con cui ha dato notizia del ritiro non ha espresso il proprio appoggio a Donald Trump.

 

Biden ha da parte sua un vantaggio da tempo incolmabile, non essendoci di fatto seri sfidanti per la nomination democratica. Nessun altro candidato aveva infatti ottenuto prima del “Supermartedì” un solo delegato per la convention della prossima estate. Due posti erano andati a delegati “non schierati” (“uncommitted”) dopo le primarie di settimana scorsa in Michigan, risultato del movimento di protesta contro il sostegno a Israele di Biden. Il voto di protesta così espresso ha fatto segnare risultati relativamente importanti anche nelle competizioni di martedì, come ad esempio nello stato del Minnesota, dove le schede registrate come “uncommitted” hanno sfiorato il 19%, traducendosi in 11 delegati non vincolati a nessun candidato in sede di convention.

Ufficialmente, una sconfitta martedì l’ha incassata anche Biden, ma l’evento ha avuto un qualche rilievo solo per le redazioni americane alla ricerca di notizie che potevano spezzare la piattezza dei risultati. Nel “caucus” delle isole Samoa Americane a prevalere è stato l’imprenditore del Maryland, Jason Palmer. I votanti sono stati però solo 91, di cui 51 per Palmer, e questo “territorio americano” non ha nessuna influenza nelle elezioni presidenziali. Il semisconosciuto Palmer ha ad ogni modo guadagnato tre delegati da inviare alla convention democratica.

In generale, le vittorie di Trump e Biden sono state nette, dagli stati con il maggior numero di delegati (California e Texas) a quelli potenzialmente decisivi nelle presidenziali di novembre (Colorado, North Carolina, Virginia). In Colorado, Trump ha potuto essere presente sulle schede elettorali solo grazie a una sentenza molto controversa emessa dalla Corte Suprema alla vigilia del voto. All’unanimità, i nove giudici avevano cancellato una decisione della Corte Suprema statale del Colorado che aveva appunto ordinato l’esclusione dell’ex presidente repubblicano dalle primarie nello stato a causa del suo ruolo nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021.

La causa si riferiva alla Sezione 3 del 14esimo Emendamento alla Costituzione americana, che vieta l’accesso a cariche elettive a coloro che sono stati coinvolti in atti di “insurrezione” o “ribellione”.  Dopo la sentenza del Colorado, anche giudici del Maine e dell’Illinois avevano deliberato contro Trump, ma la decisione di lunedì della Corte Suprema federale ha dato il via libera alla candidatura dell’ex presidente in tutti gli stati. I giudici hanno stabilito che non spetta agli stati regolare simili questioni elettorali, mentre i tre membri “liberal” della Corte hanno giustificato il loro voto assieme alla maggioranza conservatrice con il pericolo che l’esclusione di Trump dalle primarie in Colorado avrebbe spinto gli amministratori repubblicani di altri stati a iniziative di ritorsione contro candidati democratici, innescando una situazione caotica nel pieno della stagione elettorale.

Le rilevazioni degli orientamenti dei votanti nella giornata di martedì hanno dato qualche  informazione più o meno significativa soprattutto sulla competizione nel Partito Repubblicano, anche se in larga misura ovvie alla luce dei risultati. In due degli stati che avevano suscitato il maggiore interesse tra gli osservatori, per via delle implicazioni in vista delle presidenziali vere e proprie, le tendenze emerse preannunciano sia notizie incoraggianti che dinamiche non del tutto favorevoli per Trump. Per quanto riguarda le prime, in Virginia e North Carolina, quest’ultimo ha ricevuto la maggioranza dei voti praticamente in tutte le categorie tra cui si può suddividere l’elettorato repubblicano.

Gli elettori che si definiscono “conservatori” e “evangelici bianchi” hanno ad esempio scelto a larga maggioranza Trump, così come quelli non laureati. Sia pure con percentuali meno nette, l’ex presidente ha prevalso indistintamente tra gli uomini e le donne e tra bianchi e non bianchi. Implicazioni più importanti per il voto di novembre potrebbero averle i dati relativi agli argomenti trattati in campagna elettorale. Immigrazione ed economia sono i temi che stanno più a cuore agli elettori e in Virginia, come quasi ovunque negli altri stati andati al voto nel “Supermartedì”, hanno indicato Trump come il candidato meglio attrezzato per far fronte alle due “emergenze”.

Lo strapotere di Trump nelle primarie finora disputate riflette il dominio che esercita ormai sul Partito Repubblicano, ma questa realtà non corrisponde all’attitudine dell’elettorato americano nel suo insieme. Alcuni elementi emersi dal voto di martedì confermano questa tendenza. Nikki Haley, che appartiene all’ala per così dire tradizionale del “GOP”, ha fatto registrare un certo successo tra i votanti identificati come democratici o indipendenti in Virginia e in North Carolina, dove si tengono primarie “aperte”.

La Haley era evidentemente una candidata di profilo troppo basso e, soprattutto, rappresenta l’essenza stessa dei poteri forti americani per rappresentare un’alternativa valida. Tuttavia, c’è un ampio bacino elettorale, oltre a quello ancora più grande formato da quanti non si recheranno neppure alle urne, che vede con estremo disagio la possibilità di un secondo mandato di Trump e, almeno in parte, potrebbe disertare il Partito Repubblicano a novembre anche senza necessariamente optare per Biden e i democratici.

I sondaggi continuano comunque a indicare un vantaggio di svariati punti percentuali di Trump sul presidente democratico, anche se questi dati si riferiscono a rilevazioni su scala nazionale. Quello che conta nel sistema elettorale americano sono invece gli stati solitamente in bilico tra democratici e repubblicani, dove di conseguenza si concentrano le maggiori risorse delle rispettive campagne elettorali. Biden e Trump sono in ogni caso tra i politici più disprezzati negli Stati Uniti e il fatto che siano loro a rigiocarsi la presidenza dopo quattro anni la dice lunga sullo stato comatoso della “democrazia” americana.

Vista la situazione delineata dal “Supermartedì”, la parte rimanente del calendario delle primarie di entrambi i partiti si trascinerà ora fino alle due convention estive, dove il presidente e l’ex presidente incasseranno formalmente le nomination. Da tenere sott’occhio, più di sondaggi e risultati, saranno i fattori extra-elettorali, gli unici a questo punto in grado di provocare (clamorose) sorprese.

Biden è infatti oggetto di discussioni probabilmente furiose tra i leader democratici dietro le quinte, sia per l’età avanzata e le condizioni mentali sia per il fardello delle posizioni irriducibilmente filo-israeliane tenute finora. Trump, da parte sua, dovrà fare i conti con le varie cause legali che lo vedono coinvolto, almeno in parte di natura politica, nel tentativo, da parte dei suoi oppositori, di liquidare un elemento imprevedibile che resta per molti versi una seria minaccia alla già traballante posizione internazionale degli Stati Uniti.

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