di Fabrizio Casari

Non risponde a nessuno su nulla. Interviene ovunque e decide per tutti. E’ ovunque. Non si fida di niente e giudica chiunque. Rifiuta di fornire i nomi di quelli che compongono il suo staff e non dichiara neanche quante siano le persone che lavorano al suo servizio. Esercitando una influenza assoluta sulle scelte dell’Amministrazione, Dick Cheney, ufficialmente vice presidente degli Stati Uniti d’America, è ormai universalmente definito come colui che ha inventato la “vicepresidenza imperiale”. Va molto oltre i compiti costituzionali assegnati al suo ruolo, l’affarista senza scrupoli che governa in nome e per conto di Gorge W. Bush, con il quale è sempre il primo e spesso l’unico a conferire. E, come ogni uomo di potere, rifiuta di rendere conto del suo operato. Anzi, ogni domanda, non importa da chi rivolta, nella migliore delle ipotesi non riceve risposta. Ma in qualche modo si tratta dell’uomo giusto al posto giusto. Dick Cheney, infatti, il vicepresidente più potente della storia è, niente di più niente di meno, l’espressione più arrogante ed impunita dell’Amministrazione statunitense peggiore della storia. Da quattro anni nega informazioni anche sui documenti riservati che transitano per il suo ufficio e persino gli elenchi dei visitatori vengono distrutti dopo esser transitati su non si sa bene quale agenda gestita da non si sa quale segreteria. E’ il primo a leggere il rapporto giornaliero dei Servizi segreti destinati al Presidente. Guerra, energia, ambiente, tasse, bilancio pubblico e nomine ai vertici dello Stato: nulla di ciò è potuto passare senza il suo benestare. Il culto del segreto che quest’omaccione arrogante e massiccio coltiva è certamente frutto della nota consuetudine della Casa Bianca con fughe di notizie e pettegolezzi che spesso hanno caratterizzato la storia delle amministrazioni Usa. Ma è altrettanto certo che tanta segretezza si deve all’assoluta necessità di celare nel segreto più assoluto la maggior parte delle attività che Cheney dirige; attività spesso al limite e ancor più spesso oltre il limite, delle prerogative costituzionali statunitensi. La “sua” azienda, la Halliburton, ha ottenuto la fetta più grossa degli appalti per la ricostruzione dell’Irak, dopo aver ottenuto ampi poteri nell’organizzazione della security privata statunitense a Baghdad e dintorni.

Dalle detenzioni illegali dei sospettati di terrorismo all’estero alla più grande operazione di spionaggio interno ai danni di milioni di statunitensi; dall’organizzazione dei voli segreti della CIA che hanno trasferito detenuti verso le camere di tortura site in Egitto, Polonia e Romania al via libera per i centri di tortura di Abu Ghraib e Guantanamo; dalla pianificazione degli attacchi al fosforo su Falluja fino alla gestione dell’operato dei servizi afgani, Dick Cheney è stato in alcuni casi il regista, in altri lo sceneggiatore, del film peggiore di questi sette anni di presidenza Bush. Insieme a John Dimitri Negroponte. L’uomo cioé che con un drammatico passato da ambasciatore statunitense in Honduras, dove organizzava la guerriglia antisandinista e gli squadroni della morte in Centroamerica al servizio dell’Amministrazione Reagan, è passato dal ruolo di proconsole in Irak a quello di Zar di tutte le spie, per finire alla vicesegretaria di Stato nell’Amministrazione Bush.

A Cheney, in particolare, si deve la scelta di dare inizio alla violazione sistematica della Convenzione di Ginevra nel trattamento dei detenuti. Avvenne nel novembre del 2001, quando un documento scritto da un suo consulente giuridico passò dalle mani di Cheney a quelle di Bush, che solo poche ore dopo, infilato in una cartellina blu con il sigillo presidenziale, divenne un ordine militare firmato dal Comandante in Capo delle forze armate Usa.

Veniva autorizzata la segretezza sulla detenzione del sospetto, l’abolizione dell’habeas corpus e la detenzione a tempo illimitato senza il dovere di formalizzare i capi d’accusa. negato il diritto alla difesa; mentre si negava il diritto ad un processo perché veniva esclusa la possibilità d’intervento di un Tribunale civile o militare. Del resto l’Amministrazione Bush si è caratterizzata per un costante tentativo di superare di forza gli ostacoli costituzionali che nel rapporto con il Congresso ed il Senato, con i suoi poteri di vigilanza e di controllo, possono – e devono – garantire l’equilibrio dei poteri su cui si articola la democrazia statunitense.

Tale attività è stata esercitata su due piani: quello mediatico e propagandistico, che ha fatto leva sulle paure seguite all’11 settembre e sulla coesione nazionale intorno alle scelte politiche e militari operate in nome della “guerra al terrorismo” e, parallelamente, dalle operazioni destinate a superare, in ogni modo possibile, le (pur relative) restrizioni che il sistema istituzionale e parte (minima) degli stessi media imponevano. E per evitare che i tribunali statunitensi potessero stoppare l’onda reazionaria ed inquisitrice disegnata dalla Casa Bianca, la stessa Corte Suprema è stata ridisegnata politicamente dai neocon per garantire l’approvazione definitiva delle norme più illiberali dell’intera storia Usa, come il Patrioct act, che ha rappresentato la fine della concezione liberale dello Stato e il passaggio ad un regime autoritario.

Il Washington Post ha deciso di aprire uno squarcio sulle attività di Dick Cheney. Non era facile, ma nemmeno difficilissimo. Oggi infatti Cheney è solo. Non ci sono più i suoi compari – Donald Rumsfeld, Lewis Libby, Paul Wolfowitz e e John Bolton. Ha ancora al suo fianco Alberto Gonzales (che però conta assasi poco) e John Dimitri Negroponte. Mentre Condoleeza Rice e Robert Gates hanno con lui uno scontro ormai noto.

Ma soprattutto l’inchiesta del giornale apre una porta già spalancata, quella che conduce ad una Casa Bianca ormai piena di personaggi screditati, inservibili. Il Partito Repubblicano non spende una parola in difesa di Cheney. In fondo, far ricadere le colpe su di lui, può essere un modo per condannare una parte dell'Esecutivo ma assolvere l’Amministrazione ed il partito di cui tutti sono espressione. Un sottile distinguo che alla vigilia dell’apertura della campagna elettorale, può tornare utile. Addirittura decisivo.

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