di Camilla Modica

In un periodo in cui progetti come lo scudo missilistico vengono riesumati dalle cantine della Guerra fredda, in cui le armi nucleari tornano al centro delle preoccupazioni mondiali, in cui le istituzioni internazionali non sembrano più avere la forza di portare avanti il processo di pacificazione, in un momento del genere non sorprende che le spese militari siano in costante crescita. I numeri dicono che nel 2006 i governi hanno destinato alla sicurezza interna e internazionale un totale di 1.204 miliardi di dollari. Una cifra difficile anche solo da immaginare destinata all’acquisto di armi, missili, al rinnovamento tecnologico degli arsenali mondiali, al mantenimento di eserciti impegnati in guerre e fantomatiche spedizioni di pace in giro per il mondo. 1.204 miliardi di dollari che dovrebbero essere serviti per proteggere e salvare vite umane da minacce come il terrorismo nazionale e internazionale. E che invece continuano ad alimentare i piani di potere di poche nazioni, a danno della vita delle popolazioni civili. In testa, come sempre, gli Stati Uniti, con 528,7 miliardi di dollari. Da soli, i "portatori sani di democrazia" – come amano considerarsi – hanno partecipato al 46% della spesa mondiale in armamenti. A “dare i numeri” non è un’associazione anti-americanista, ma un organismo indipendente come il Sipri, l’Istituto per le ricerche sulla pace internazionale, fondato a Stoccolma nel 1966 per commemorare i 150 anni di pace ininterrotta in Svezia. Da anni, il Sipri tiene sotto controllo le spese militari mondiali, registrando continui aumenti. Per avere un’idea della tendenza, basta dire che negli ultimi dieci anni l’incremento è stato del 37%. Solo nel 2006, rispetto all’anno precedente, i governi hanno speso il 3,5% in più per i propri eserciti. Un aumento calcolato in termini reali, quindi al netto dell’inflazione. Facendo la media pro capite annuale, è come se ognuno dei sei miliardi e passa di persone che abitano i cinque continenti avesse versato 184 dollari (11 dollari in più del 2005).

Ovviamente però, a questa cifra non contribuiscono allo stesso modo tutti i governi del mondo. Secondo la lista stilata dal Sipri, le prime 15 nazioni spendono l’83 per cento di tutti i 1.204 miliardi di dollari. In testa, come si è detto, gli Stati Uniti, con 528,7 miliardi di dollari, investiti per la maggior parte in una guerra al terrorismo globale che dal settembre 2001 al giugno 2006 è costato agli americani ben 432 miliardi. Al secondo posto ma nettamente distaccata, si trova l’Inghilterra con 59 miliardi, seguita da Francia (53 miliardi), Cina (50 miliardi), Giappone (44 miliardi), Germania (37 miliardi), Russia (35 miliardi). Non bisogna scendere molto più giù per trovare l’Italia, piazzata al nono posto con quasi 30 miliardi, giusto prima dell’Unione indiana che, nonostante la povertà della sua vastissima popolazione e le pessime condizioni igienico-sanitarie, ha deciso di spendere 24 miliardi di dollari per la sicurezza e per finanziare l’eterna diatriba con il Pakistan sul controllo del Kashmir.

“Vale la pena chiedersi – scrive nel rapporto del Sipri Elisabeth Shöns - quanto siano utili le spese militari all’aumento della sicurezza, se consideriamo quest’ultima come il modo per evitare morti premature e traumi dovuti ai pericoli reali”. La ricercatrice sottolinea come, secondo i dati del Who (Organizzazione mondiale della sanità), circa il 10% dei fattori di rischio globale identificati per i paesi in via di sviluppo con alti tassi di mortalità, quattro sono collegati alla fame e due all’ambiente (acqua inquinata, sanità ed igiene precarie). Tutti, ovviamente, collegati all’estrema povertà in cui versa la maggior parte della popolazione di queste nazioni. Se invece di destinare cifre con 12 zeri ad armamenti e interventi militari che lasciano alle loro spalle più macerie e miseria di quella che trovano, i governi del mondo investissero 57 miliardi di dollari in interventi medici di base, potrebbero essere salvate 8 milioni di vite l’anno. Secondo le stime, poi, basterebbero 135 miliardi per raggiungere gli obiettivi del millennio che si è preposti l’Onu. 135 contro 1.024.

Difficile, però, far capire a nazioni come gli Stati Uniti che combattere la fame è un modo anche per combattere il terrorismo. Difficile far passare l’idea che esiste un legame stretto tra la disperazione di chi ha poco o nulla e la violenza che porta uomini, donne e anche bambini, ad imbracciare un fucile, diventando facili prede di personaggi folli e senza scrupoli come Osama bin Laden. Del resto, è nettamente più facile programmare una guerra, mobilitare uomini e mezzi per attaccare Afghanistan o Iraq, piuttosto che riflettere su come aiutare i paesi in via di sviluppo a garantire condizioni di vita almeno simili a quelle di un occidentale, senza, però, fare del mero assistenzialismo.

Ma incrementare le spese militari non è solo più facile. È anche, in modo indiretto, redditizio. Basta dire che 40 aziende americane hanno fornito il 63% delle armi vendute nel 2005. Usa e Russia, infatti sono i due principali esportatori di armi. A comprare soprattutto Cina e India. Non solo. Il rapporto del Sipri denuncia come tra i compratori delle aziende militari americane ci sono non pochi Stati del Medio Oriente. Tra i primi dieci importatori di armi, cinque provengono dall’area più instabile del mondo. “Mentre sulla stampa internazionale si sottolineano le armi vendute dalla Russia all’Iran, le forniture che Usa e Ue forniscono a Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi sono di gran lunga più ampie”, continuano i ricercatori di Stoccolma.
Non sorprende che nel dicembre 2006, mentre l’Assemblea generale Onu votava per la creazione di un trattato sul commercio internazionale di armi, l’unico voto contrario sia arrivato proprio dal rappresentante della Casa Bianca. Per l’economia americana, dover ridurre le proprie esportazioni militari significherebbe una crisi economica non indifferente.

L’Italia, in questo mercato poco nobile ma molto redditizio, è ben piazzata. Con 869 milioni di dollari scende al settimo posto dei maggiori esportatori, ma registra comunque il livello più alto dal 1985. Tra le prime cento industrie militari (ad esclusione di quelle cinesi), Finmeccanica si trova settima, con il 70% del suo fatturato annuo dedicato alla spesa militare.

L’unica area del mondo ad aver ridotto le proprie spese militari è l’America centrale. Una tendenza che non s’inaugura nel 2006, ma che va avanti da dieci anni. Dal 1996 ad oggi, questi governi hanno tagliato del 5% le risorse destinate agli eserciti, contrastando una tendenza mondiale ben diversa che è valsa un aumento del 37%. Costa Rica e Panama, poi, un esercito non ce l’hanno nemmeno. In Costa Rica ad essere ridotte sono anche le spese per la sicurezza interna e i controlli alla frontiera, che contano appena lo 0,05% del suo Pil.
Il resto dell’America latina ha situazioni diverse. Premettendo che l’aumento nell’ultimo decennio è stato del 21%, quindi inferiore alla media mondiale, non si può non considerare la differenza tra nazioni come Cile, Argentina, Brasile e Uruguay, impegnati in una sostituzione ordinari di attrezzature militari ormai vecchie, e altri paesi come Venezuela, Colombia e Bolivia che stanno invece lavorando a un concreto ampliamento dei propri armamenti. E se la Colombia aumenta la sua forza aerea per tentare di rafforzare il suo ruolo nella regione, il Venezuela “deve rimanere preparato a un’eventuale invasione degli Stati Uniti”, dice il presidente Ugo Chavez. Il risultato è che, proprio grazie alle pressioni statunitensi, per il secondo anno consecutivo il Venezuela ha registrato il maggiore aumento di spese militari dell’America del Sud: +20%.

Un quadro, quello tracciato dal Sipri, che non lascia molte speranze per un’inversione di tendenza. E fin quando gli Stati Uniti saranno impegnati nel loro ruolo di esportatori di democrazia, ben poco potrà cambiare.

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