di Luca Mazzucato

Nella notte di mercoledì 5 settembre, una flotta di almeno otto caccia israeliani ha attaccato un misterioso obiettivo militare nella Siria settentrionale, vicino al confine con la Turchia, con il rischio di far deflagrare la tanto discussa guerra con la Siria. Il motivo del raid e il suo esito sono del tutto oscuri: il governo israeliano mantiene un totale riserbo, mentre la Siria ha inoltrato una protesta ufficiale all'ONU, fornendo nei giorni successivi versioni contraddittorie dell'accaduto. I media occidentali cercano di risolvere il giallo, sparando tutti gli scoop possibili sulla natura dell'obiettivo: prima un carico di armi per Hizbullah, poi un sistema missilistico russo, poi un cargo di materiale nucleare dalla Corea del Nord, infine un'installazione nucleare militare fornita assistita dalla Corea, versione quest'ultima sostenuta dalla Casa Bianca. Per riproporre forse il ben riuscito trucco delle armi di distruzione di massa. L'ambasciatore siriano all'ONU si sgola per attirare l'attenzione, ma i Paesi arabi sunniti fanno orecchie da mercante, sempre più schierati contro l'asse Iran-Siria. E la Rice compare a sorpresa in Israele, per ringraziare gli israeliani della missione, forse in previsione dell'attacco americano all'Iran. L'ultimo episodio di tensione tra Tel Aviv e Damasco risale ad oltre un anno fa, quando all'indomani della guerra in Libano, i caccia con la stella di David sorvolano a bassissima quota il palazzo presidenziale di Assad: un cenno di Olmert e Damasco avrebbe fatto la fine di Beirut, questo il messaggio, e per la Siria era meglio tenersi fuori dalla guerra in Libano; consiglio peraltro seguito. Nell'ultimo anno, Olmert e Assad, come due attori d'avanspettacolo, hanno inscenato un botta e risposta di proposte di dialogo, disponibilità alla trattativa, generose concessioni, per la firma di un accordo tra i due Paesi ancora formalmente in guerra.

Ammassando nel frattempo truppe e mezzi attorno alle alture del Golan, occupate da Israele nel '67. La recente escalation del tutto inaspettata ha completamente cambiato il quadro, nonostante Olmert, con una insopportabile faccia tosta, abbia ribadito ancora una volta questa settimana il suo invito ad Assad di sedersi attorno a un tavolo e discutere, di cosa non è chiaro.

L'unica cosa certa è che un attacco israeliano c'è stato ed ha centrato il suo obiettivo. Il governo israeliano e l'esercito si sono chiusi in un no comment a tutti i livelli. Alle domande dei giornalisti, Olmert ha ostentato un sorriso compiaciuto ma non ha fornito spiegazioni. I media, completamente allineati ai diktat militari, non hanno nemmeno cercato di indagare sull'accaduto. Quest'ultimo fatto è tanto più preoccupante, in quanto quest'azione avrebbe potuto provocare un'escalation militare dagli esiti totalmente imprevedibili: l'opinione pubblica israeliana si dimostra ancora una volta completamente apatica e passiva.

La reazione siriana invece è stata sorprendente: all'inizio guardingo, il Ministro degli Esteri denuncia la violazione dello spazio aereo siriano, minimizzando l'incidente e affermando che la contraerea aveva messo in fuga i caccia nemici; in un secondo momento, annuncia di aver subito un bombardamento, che tuttavia non ha centrato alcun obiettivo, lasciando soltanto “un grosso buco nel deserto.”

La strategia iniziale della Siria è di cercare la solidarietà formale dei Paesi arabi, senza creare un casus belli, né entrare troppo nei particolari. Le uniche denunce dell'attacco tuttavia giungono da Iran e Corea del Nord. L'irritazione di Damasco cresce nei giorni successivi, quando la solidarietà araba tarda a presentarsi, allora Assad annuncia di meditare sul tipo di risposta adeguata all'attacco, che “potrebbe anche essere militare”, salvo poi smentire successivamente qualsiasi rappresaglia.

I network occidentali si lanciano all'assalto della notizia e ognuno ne propone una spiegazione diversa. Sicuramente non si è trattato di armi per Hizbullah, come suggerito in un primo tempo dal New York Times: Israele non si sarebbe mai spinto così a nord, chiedendo aiuto alla Turchia, per così poco. Il ruolo della Turchia peraltro è interessante e conferma l'importanza strategica dell'attacco: il governo turco di Erdogan ha protestato ufficialmente con Tel Aviv, mentre l'esercito turco ha dichiarato di aver collaborato attivamente con l'IAF, mantenendo il proprio governo all'oscuro di tutto, creando l'ennesima crisi istituzionale. L'ipotesi del sistema missilistico russo, suggerita da Al Arabica, è più plausibile: nel nord della Siria infatti, poco distante dalla zona del raid, è in costruzione un'importante base militare armata dalla Russia, che in questo modo si spinge in una zona strategica, a ridosso della Turchia, da dove controllare i movimenti della NATO.

Ma la notizia col botto arriva una settimana dopo l'accaduto: il Washington Post, citando fonti della Casa Bianca, annuncia che il raid israeliano avrebbe colpito e distrutto un cargo sospetto proveniente dalla Corea del Nord; secondo la CNN e la Fox News, che citano le stesse fonti, l'obiettivo sarebbe stato invece un'installazione nucleare segreta, costruita con l'aiuto della Corea del Nord, in cui si estrarrebbe uranio da fosfati. In pochi giorni, tutti i media occidentali adottano la versione “nucleare coreana”, sostanzialmente basandosi su numerose dichiarazioni di ufficiali americani, tra cui l'ex ambasciatore americano all'ONU John Bolton, uno dei falchi dell'amministrazione Bush.

Tuttavia, anche questa spiegazione non sembra essere conclusiva. Se i caccia israeliani avessero davvero distrutto un'installazione nucleare, sarebbe allora del tutto incomprensibile il silenzio del governo Olmert, che al contrario avrebbe tutti i motivi diplomatici e interni per sbandierare il successo, proprio come accaduto con il raid in Iraq, che nel 1981 distrusse il reattore nucleare di Osirak. La Siria, al contrario, ha un disperato bisogno di mettere fine all'ostilità americana: l'ultima cosa di cui ha bisogno è un embargo, inevitabile nel caso di scoperta di ambizioni nucleari, che prostrerebbe l'economia in cerca di una ripresa dopo il ritiro dal Libano. D'altra parte è ormai chiaro che per mettersi al sicuro da un'invasione americana l'unica possibilità è dotarsi di armi nucleari, come dimostrato dalla vicenda della Corea del Nord e come sta cercando di fare l'Iran.

Il sospetto che gli Stati Uniti stiano cercando di rimettere in moto la tattica delle “armi di distruzione di massa” è legittimo, seguendo la tecnica, collaudata con l'Iraq, secondo la quale più viene ripetuta una bufala, più acquista verità. Le uniche fonti sulle presunte ambizioni nucleari siriane provengono infatti dall'interno dell'amministrazione Bush. La Siria è il pallino del vicepresidente Cheney, che ha cercato a più riprese delle motivazioni per creare una crisi: adesso più che mai, mettere la Siria all'angolo aprirebbe la strada all'attacco all'Iran.

E in effetti, prende corpo la notizia che in realtà la segretissima missione israeliana sia stata commissionata dal Pentagono: Condoleezza Rice sarebbe infatti in viaggio verso Gerusalemme per congratularsi personalmente con Olmert, che in questo modo avrebbe guadagnato qualche altro mese di navigazione a vista per il suo governo.

Alcuni commentatori israeliani hanno ribadito che il raid sarebbe in realtà una prova generale per l'attacco alle centrifughe nucleari iraniane. Da una parte, insinuando la notizia del nucleare siriano, Bush vuole indebolire la posizione di Assad, unico alleato del regime degli Ayatollah. D'altra parte, la finestra temporale favorevole per questo attacco, cioè la fine della presidenza Bush, sta per chiudersi e la decisione va presa al più presto.

In caso di attacco americano, la Siria, legata all'Iran da un patto militare difensivo, si incaricherebbe della rappresaglia immediata su Israele. Con il recente raid, dunque, l'esercito israeliano potrebbe aver neutralizzato in via preventiva qualche cruciale armamento strategico. Se quest'ultima ipotesi si rivelasse corretta, il conto alla rovescia per l'attacco all'Iran sarebbe già partito e, a quel punto, si salvi chi può.

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