di Eugenio Roscini Vitali

Sono passati novanta anni dalla dichiarazione di Balfour, 117 parole che hanno segnato il destino di milioni di persone e che hanno influito profondamente sulla storia del Madio Oriente. Era il 2 novembre 1917 quando l’allora ministro degli Esteri inglese, Arthur James Balfour, scrisse una lettera al principale rappresentante della comunità ebraica e del movimento sionista d’oltre manica, Lord Rotschild, illustrando la favorevole posizione del governo britannico verso la creazione di un focolare ebraico in Palestina. Tra le righe la dichiarazione citava: "Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico e si adoprerà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che non deve essere fatto nulla che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni". I fatti che seguirono la dichiarazione non coincisero però con gli intenti espressi da James Balfour e con gli impegni presi dalla Società delle Nazioni, che avviò il progetto per la creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina conferendo alla Gran Bretagna il mandato sulla regione. Negli anni a venire gli ebrei invocarono spesso privilegi ed eccezioni non sanciti dalla dichiarazione, creando un fortissimo stato di tensione con le comunità musulmane e snaturando di fatto il legittimo diritto alla creazione di uno Stato; situazioni ambigue che gli inglesi non seppero gestire e che modificarono drasticamente il processo politico che avrebbe dovuto portare alla pacifica coesistenza di palestinesi ed ebrei. La chiave di lettura di questo insuccesso era stata anticipata da Winston Churchill nel 1922: la dichiarazione di Balfour auspicava la creazione di uno Stato ebraico in Palestina senza che questa nazione coincidesse con l’intera regione, cosa che invece fu fatta e che danneggiò irrimediabilmente i diritti civili e religiosi dei palestinesi.

In problema palestinese è probabilmente nato dal fatto che la prima organizzazione ebraica, che aveva preconizzato un ritorno a Sion come alternativa all’ondata antisemita che si era scatenata in Europa a partire dalla metà del XIX secolo, non aveva preso in considerazione gli arabi che risiedevano in Palestina. Lo slogan del movimento sionista fondato da Theodor Herzl il 29 agosto 1897 era evidentemente basato su un tragico equivoco: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. A questo si aggiunse la forte ondata di immigrazione dovuta alle persecuzioni subite in Europa nei primi del ‘900, le rivendicazioni del movimento sionista che seguirono la tragedia dell’Olocausto, il fallimento dell’amministrazione britannica in Palestina e gli errori dell’Onu che, dopo aver preferito la creazione di due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, ad uno Stato federale che comprendesse ebrei e palestinesi con Gerusalemme posta sotto l’amministrazione internazionale, non seppero imporre la pace e non fecero rispettare l’iniziale ripartizione dei territori.

Per più di mezzo secolo il Medio Oriente è stato teatro di eventi tragici e sanguinosi scatenati dalla millenaria diaspora che divide il popolo ebraico dal mondo arabo e che spesso si sono sviluppati intorno alla questione palestinese. Ragioni storiche, sociali, culturali e religiose che coinvolgono l’intero contesto mediorientale e che hanno dato vita a quattro guerre arabo-israeliane e due grandi rivolte palestinesi, la prima intifada e l’intifada al-Aqsa. Fatti che sono passati attraverso la nascita dello Stato di Israele, la creazione dell’Organizzazione Nazionale della Palestina, la proclamazione dello Stato Palestinese, la storica stretta di mano tra Arafat e Rabin, il ritiro dell'esercito israeliano dalla Striscia di Gaza e il sanguinoso scontro inter-palestinese tra Hamas e Fatah.

Mentre gli ebrei si sono stretti intorno alla loro identità nazionale e religiosa, hanno fondato lo Stato di Israele e hanno combattuto per difendere la loro nazione, i palestinesi hanno dovuto fare i conti con l’esilio, l’isolamento, la repressione e le falangi estremiste che hanno trasformato i territori in una vera polveriera. A questo si sono aggiunti i contrasti interni che hanno visto di fronte la corrente laica e il movimento islamico; contrasti che hanno dato vita agli scontri cruenti che hanno incendiato Gaza e che non si sono fermati neanche il giorno dell’ultima commemorazione della morte del presidente Yasser Arafat. Uno stallo politico-militare che si sta avvitando su questioni fondamentali quali l’inalienabilità del territorio, lo stato giuridico dei profughi e il “riconoscimento” di Israele come patria degli ebrei; una paralisi istituzionale che potrebbe influire anche sui risultati del prossimo vertice di Annapolis, la conferenza di pace israelo-palestinese organizzata dagli Stati Uniti per il prossimo 26 novembre.

Questa volta, al tavolo delle trattative, Abu Mazen e Olmert arriveranno dopo aver sottoscritto un documento condiviso: una mossa diplomatica che dovrebbe anticipare il buon esito del vertice. Tra i tanti punti in agenda verranno discussi il problema sulla sovranità dei territori occupati, lo smantellamento degli insediamenti ebraici, i confini del futuro Stato Palestinese, la tutela della sicurezza e il futuro di Gerusalemme, luogo simbolo del Cristianesimo, del Giudaismo e dell’Islam e capitale, occupata dagli israeliani, dello Stato di Israele e dello Stato Palestinese.

E la storia della città può ben essere letta come paradigma della tragedia mediorientale. Definita “città internazionale” con la Risoluzione 181, approvata dall’Onu il 29 novembre 1947, dopo la prima guerra arabo-israeliana, Gerusalemme viene divisa in due settori: la parte occidentale sotto la sovranità israeliana e la parte orientale sotto il controllo dell’esercito giordano. Il 7 giugno 1967, durante la guerra dei Sei Giorni, l’esercito israeliano occupa la parte orientale di Gerusalemme e tre giorni dopo viene raso al suolo il quartiere arabo di Mughrabi, nella città vecchia. In risposta alle risoluzioni Onu che chiedono lo smantellamento degli insediamenti ebraici, il 30 luglio 1980 la Knesset proclama la città Santa indivisibile e capitale dello Stato di Israele. La Risoluzione 478 del 20 agosto 1980 non ferma la volontà israeliana di cambiare l’aspetto e lo status della città; un progetto che dura quasi 20 anni e che si conclude nel 1997 con la costruzione degli ultimi insediamenti ebraici che completano l’accerchiamento della città.

L’11 luglio 2000 ha inizio il fallimentare incontro di Camp David durante il quale Arafat rigetta la proposta Americana, che prevede la spartizione della città Santa e lascia agli israeliani il controllo sulla Spianata. Il 28 settembre 2000 la visita provocatoria di Ariel Sharon alla Spianata delle moschee e lo scoppio della seconda Intifada. Il 27 novembre 2000, la decisione israeliana di modificare la Costituzione in modo da impedire a qualsiasi governo la cessione della parte orientale della città. Il 21 gennaio 2001 i negoziati di Taba, durante i quali i palestinesi si dichiarano pronti a discutere la presenza degli insediamenti ebraici costruiti intorno a Gerusalemme Est dopo il 1967. Durante il vertice viene rilanciata la proposta di Gerusalemme “città aperta” e capitale di due Stati ma le trattative si arenano nuovamente a causa del problema dei rifugiati palestinesi.

Il 28 marzo 2002 arriva la proposta dell’Arabia Saudita che chiede il pieno riconoscimento di Israele e la pace con tutti i Paesi arabi in cambio del ripristino dei confini antecedenti la guerra del 1967 e la creazione di uno Stato palestinese indipendente con capitale a Gerusalemme Est. Il 10 aprile 2002, il Quartetto composto da Unione Europea, Usa, Russia e Onu, approva la “road map”, un piano che ha come obbiettivo la fine del conflitto entro il 2005. La soluzione, che ricalca la proposta araba e prevede la fine delle violenze, naufraga con le elezioni politiche palestinesi del gennaio 2006 vinte da Hamas.

Quelle che verranno affrontate ad Annapolis sono tutte questioni che potrebbero trovare una soluzione, ma che non prendono in considerazione una grande incognita: l'assenza di Hamas dal tavolo delle trattative. Il movimento islamico, inserito da Europa e Stati Uniti nella lista dei gruppi terroristici internazionali, rappresenta una parte considerevole del popolo palestinese e il fatto che sia stato escluso dai negoziati e che non vengano tenute in considerazione le sue richieste, prima fra tutte il diritto dei palestinesi al “ritorno”, potrebbe trasformarsi in un nuovo catastrofico errore; una pace a metà che non accontenterebbe nessuno. I fatti accaduti dopo la dichiarazione di Balfour dovrebbero aver insegnato che un’azione politica può causare enormi conseguenze, soprattutto se non si tengono in considerazione le istanze dei soggetti coinvolti o addirittura, come è accaduto in Palestina, non se ne riconosca la legittimità o l’esistenza.

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