di Eugenio Roscini Vitali

Secondo una denuncia pubblicata nei giorni scorsi da Amnesty International, il sistema giudiziario ugandese ignora, nega o cerca di mettere a tacere, le violenze che vengono perpetrate contro donne e ragazze che vivono nel nord del Paese, proteggendo addirittura le persone sospettate di questo disumano e vergognoso crimine. Le accuse mosse dall’organizzazione umanitaria includono stupri, aggressioni fisiche e abusi sessuali sui minori e sono documentate con la testimonianza delle stesse vittime che raccontano i casi di violenza di cui sono state vittime. Per documentare il rapporto, lo scorso agosto Amnesty International ha visitato cinque distretti del nord: Gulu, Amuru, Kitgum, Pader e Lira. Qui, i ricercatori hanno riscontrato la quasi totale assenza delle strutture dello Stato, lo scarso numero di distretti di polizia, il basso livello di preparazione delle forze di sicurezza e l’insensibilità riservata ad argomenti quali i diritti umani e le traumatiche vicende di violenze sessuali. Durante la fase investigativa fatta presso le stazioni di polizia è stata riscontrata la mancanza dei moduli PF3 utilizzati per la registrazione dei reati di stupro; modelli che devono essere compilati dall’ufficiale medico e che diventano una prova fondamentale nel caso di procedimento penale. Secondo quanto riportato dai ricercatori dell’organizzazione non governativa, nei casi in cui è invece possibile documentare l’avvenuta violenza, le autorità fanno di tutto per dissuadere le donne dal procedere con le denuncia. Nel nord del Paese la mancanza cronica di ufficiali medici non permette di eseguire le visite medico-legali in tempi brevi e, comunque, gli ufficiali non sono quasi mai propensi a rilasciare la loro testimonianza in sede processuale.

Il risultato di tutto questo è che nella stragrande maggioranza dei casi gli abusi sessuali non vengono denunciati e le donne, spaventate dalle reazioni della comunità in cui vivono, si chiudono nel silenzio. È proprio per il modo in cui questi atti criminali vengono trattati dalla giustizia che Amnesty International considera le donne e le ragazze ugandesi vittime del sistema giuridico che premia la cultura dell'impunità piuttosto che difendere i diritti umani.

Il National Peace, Recovery and Development Plan for Northern Uganda (PRDP), cioè il piano triennale del governo che si propone di consolidare la pace e la sicurezza nel nord del Paese, prevede l’implementazione del sistema giudiziario e l’innalzamento degli standard minimi di preparazione per gli organi di polizia preposti a vigilare le aree settentrionali. Un impegno importante che Amnesty International non reputa comunque sufficiente visti i tempi di attuazione. Secondo il report, la violenza giornaliera alla quale è sottoposta la parte più debole della popolazione esige un intervento immediato delle autorità e una maggiore attenzione da parte del governo.

Anche se l’Uganda ha sottoscritto i trattati che proibiscono la violenza contro le donne e nel 1985 ha ratificato la convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione (Cedaw), i casi di stupro, abuso, maltrattamento, poligamia e matrimonio forzato sono all’ordine del giorno. Questo nonostante l’articolo 33 della Costituzione preveda che gli uomini e le donne siano trattati con uguale rispetto e la sezione 129 del codice penale preveda, per reati sessuali a danno di minorenni, l’ergastolo e in alcuni casi la pena di morte.

In Uganda la violenza contro le donne è un fatto endemico, risultante dalla profonda iniquità con cui esse vengono trattate e dal fatto che questo non è solo dovuto agli eventi della guerra, ma che accade anche in tempo di pace. Le inarrestabili brutalità alle quali sono sottoposte le donne e le giovani ragazze ugandesi, sono esasperate da 21 anni di guerra civile tra il Lord’s Resistance Army (Lra) e le Forze Armate ugandesi, un conflitto interrotto dai colloqui di pace dello scorso anno e che è stato caratterizzato dagli abusi contro le donne messi in atto da entrambe gli eserciti.

Nel suo rapporto Amnesty International racconta la testimonianza di una diciassettenne che al momento dei fatti aveva solo 11 anni: Auma Jane del distretto di Pader. Fuggita dalle angherie dei ribelli, è stata costretta a sposare il figlio più grande di uno dei rappresentanti del consiglio del villaggio dove si era rifugiata; picchiata e maltrattata è riuscita a trovare rifugio presso un’organizzazione non governativa dove ha potuto raccontare la sua storia.

Il report racconta di molti altri casi, come quello di Ayaa Gloria, rapita e violentata all’età di 15 anni da un uomo che conosceva mentre si recava in chiesa nel distretto di Kitgum. Dopo aver raccontato il fatto ai parenti, Gloria è stata costretta a non sporgere denuncia; l’anziano zio ha preferito ricevere dalla famiglia del criminale un risarcimento di 30 dollari e, senza nessun pudore, a qualche mese di distanza, le ha chiesto di sposare il suo seviziatore, cosa che Gloria si è rifiutata di fare. Amnesty International riporta anche vicende di ragazze che hanno subito soprusi da parte degli uomini dell’esercito regolare: nel dicembre dello scorso anno Atieno Mildred è stata rapita e violentata da un soldato che prestava servizio nel distretto di Amuru. Dopo alcuni mesi Mildred è risultata positive al test dell’HIV ed è sprofondata nel dramma della solitudine e della disperazione, accusata dal marito di essere stata la causa delle sue stesse disgrazie.

Amnesty International ricorda che secondo i dati pubblicati dall’Unicef, tra il 1986 e il 2002, l’Lra avrebbe rapito più di 32 mila bambini, usati come soldati o come schiavi del sesso, e l’esercito governativo avrebbe abusato di donne e ragazze compiendo anche sevizie di gruppo. A questo vanno aggiunti gli innumerevoli casi di violenza subita all’interno del nucleo familiare e della comunità di appartenenza. Nel nord del Paese - e soprattutto nei campi profughi dove tra l’altro si è rifugiata gran parte della popolazione - questi soprusi aggravano in modo tragico la condizione delle donne e dei minori che, come molti altri africani, sono lasciati troppo spesso al loro destino.

Le azioni prese dall’International Criminal Court (ICC) contro alcuni capi dell’Lra incriminati di rapimento, violenza sessuale e mutilazione, sembrano non frenare il barbaro scempio e l’aiuto delle organizzazioni non governative, impegnate nel sostenere le vittime gli abusi e nel contenere gli effetti della piaga dell’HIV, rischia di rimanere un fatto marginale se non verrà appoggiato quanto prima dal governo di Kampala e dalla comunità internazionale.

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