di Luca Mazzucato

Centinaia di migliaia di palestinesi che si riversano in Egitto, passando sopra i resti del muro di acciaio che isolava la Striscia di Gaza. Uomini che trasportano carretti carichi di cibo e taniche di benzina, che fanno la spola carichi di sigarette, famiglie che si ricongiungono al confine dopo anni di separazione. Più semplicemente, migliaia di persone che si godono il primo giorno di libertà e vanno a vedere come è fatta l'altra metà di Rafah, la città egiziana e palestinese tagliata in due dal confine. La notizia che nessuno si aspettava è arrivata nella notte di mercoledì scorso: un gruppo di militanti palestinesi ha fatto saltare in aria parte del muro di acciaio di dodici chilometri che separava Gaza dall'Egitto, liberando il milione e mezzo di abitanti di Gaza dal blocco disumano imposto da Israele sulla Striscia. La situazione era infatti precipitata due settimane fa. Un attacco israeliano su Gaza aveva provocato una strage, uccidendo una trenta palestinesi, tra cui il figlio di Mahmoud Za'ar, esponente di spicco del governo Hamas che controlla la Striscia dal Luglio scorso. Nei giorni successivi, una pioggia di razzi Qassam si è abbattuta sul deserto del Negev e su Sderot, non provocando fortunatamente vittime, mentre un giovane volontario ecuadoregno veniva assassinato in un Kibbutz, colpito da un cecchino palestinese. Il governo Olmert a quel punto decide di infliggere una punizione collettiva al milione e mezzo di abitanti della Striscia, bloccando le forniture di carburante ed elettricità e impedendo l'arrivo di aiuti umanitari, da cui gran parte della popolazione palestinese dipende. Per cinque giorni, Gaza piomba nell'età della pietra, senza luce, acqua né cibo, mentre l'impianto fognario fuori uso riversa i liquami per le strade e i medici negli ospedali pregano che i generatori a secco non si spengano.

Dopo cinque giorni di terrore, a notte fonda delle esplosioni scuotono il buio di Rafah e il confine con l'Egitto viene spalancato per tutti i palestinesi. Il confine non c'è più e chiuque può attraversarlo in entrambe le direzioni, come in una versione mediorientale di Schengen. I soldati egiziani sono rimasti a guardare senza intervenire: ad un certo punto si sono improvvisati vigili urbani per rimettere ordine nel traffico caotico. L'ordine del presidente egiziano Mubarak era chiaro: lasciare passare i palestinesi perché “stanno morendo di fame.” Non è stato certo mosso dalla solidarietà, ma dalla delicata situazione interna egiziana. La stragrande maggioranza degli egiziani, sotto la ferrea morsa del regime militare di Mubarak, sono solidali con i palestinesi.

La settimana scorsa, una manifestazione al Cairo dei Fratelli Musulmani, che chiedeva la fine dell'embargo a Gaza, è stata violentemente repressa dalla polizia, che ha arrestato cinquecento manifestanti. I Fratelli Musulmani sono il movimento d'opposizione islamica al regime di Mubarak, dalla cui costola alla fine degli anni ottanta è nato Hamas. Il movimento egiziano è fuorilegge ma gode di un ampio consenso tra la popolazione: la questione palestinese è critica per il presidente egiziano, che in questo caso cerca di tenere un profilo basso.

Nei cinque giorni passati dall'abbattimento del muro, vari tentativi di risigillare il confine da parte egiziana sono andati a vuoto. La polizia egiziana ha isolato il Sinai dal resto del paese, per evitare che palestinesi in fuga raggiungano il Cairo, mentre domenica sera è arrivato l'ordine di chiudere tutti i negozi vicini al confine con Gaza, sperando così di arrestare spontaneamente l'esodo palestinese. Le pressioni israeliane e americane su Mubarak, perché chiuda il confine con la forza, non hanno finora avuto l'effetto sperato, anche se la situazione resta molto tesa, dopo che alcuni scontri tra palestinesi e soldati egiziani hanno provocato alcuni feriti.

La portata politica dell'abbattimento del muro di Gaza è storica. Da una parte, l'operazione di minamento del confine era stata pianificata da tempo, come rivelato da fonti interne ad Hamas, ed è stata eseguita dopo aver avvertito sia l'esercito egiziano che gli abitanti della parte egiziana di Rafah, per evitare qualsiasi scontro o ferimento. Questa pianificazione ha lasciato di stucco tutto l'establishment militare e politico di Tel Aviv, che si è sempre beffato dell'inconcludenza palestinese. Il sostegno per il movimento islamico cresce ora a dismisura non solo nella Striscia, ma in tutto il mondo arabo. Laddove la diplomazia internazionale e l'ONU sono completamente paralizzate dai veti americani e israeliani e incapaci di influire sul conflitto in corso, Hamas ha dimostrato sul terreno che non è possibile incarcerare un milione e mezzo di persone e lasciare che muoiano di stenti.

La mossa è stata così efficace che, colti di sorpresa, né il governo né l'esercito israeliano hanno ancora deciso cosa fare. Dopo la decisione aberrante di affamare un intero popolo per rappresaglia contro il lancio di razzi Qassam, nessuno si aspettava che i palestinesi facessero qualcosa. La strategia israeliana di isolamento della Striscia per rovesciare Hamas è svanita in pochi secondi insieme all'acciaio del muro. Il governo Olmert-Barak non possiede alcun piano B, così nel panico sta a guardare, aspettando che il rapporto sulle responsabilità della disastrosa guerra in Libano fra qualche giorno decapiti l'esecutivo. L'unico commento è arrivato dal ministro degli esteri Livni, che ha avvertito del pericolo di attacchi suicidi da parte di militanti palestinesi, che possono ora attraversare la porosa frontiera tra Egitto e Israele sul Sinai. I turisti israeliani, che affollano le località turistiche egiziane sul Mar Rosso, sono scappati in preda al panico e Israele ha chiuso il confine di Taba.

Potrebbe profilarsi all'orizzonte un ricollocamento di Hamas: alla faccia minacciosa e alle dichiarazioni roboanti contro il nemico sionista, questa volta si è sostituita un'abilità pragmatica volta a creare “fatti sul campo,” strategia tanto cara alla leadership israeliana nei Territori Occupati della West Bank. Abbattendo il muro, Hamas ha dimostrato nei fatti che i cosiddetti negoziati di pace tra Olmert e Abu Mazen non servono certo ad alleviare la sofferenza della popolazione palestinese di Gaza, la cui unica via è aprirsi da sola un varco verso la libertà, ma anche verso la legittimazione politica. Quest'ultima un obiettivo cruciale per Hamas, che cerca ora di trasformare la nuova popolarità nel riconoscimento politico finora negato.

Il leader di Hamas in esilio a Damasco, Khaled Mesh'al, ha subito dichiarato di essere disponibile a riaprire il dialogo con gli avversari di Fatah senza condizioni. Come gesto di buona volontà, ha offerto ad Abu Mazen il controllo congiunto del valico di Rafah, proponendo che sia gestito da egiziani e palestinesi insieme all'ANP, ma senza presenza israeliana. Mesh'al ha persino offerto ad Abu Mazen di riprendersi il palazzo della sicurezza presidenziale a Gaza City, conquistato in Luglio durante i sanguinosi scontri tra le due fazioni rivali.

La posizione di Abu Mazen in questi giorni risulta particolarmente insostenibile. Ormai diventato più realista del re, il presidente dell'ANP si è rifiutato di interrompere gli incontri settimanali a casa di Olmert, nonostante il blocco totale imposto a Gaza, e si è dichiarato a caldo preoccupato per l'abbattimento del muro a Rafah. Risulta ora evidente più che mai che all'attuale leadership di Ramallah sta molto più a cuore liberarsi di Hamas che dell'Occupazione israeliana, grazie alla quale miliardi di dollari di aiuti piovono nelle tasche di Fatah. Alle concrete offerte di dialogo da parte di Mesh'al, Abu Mazen ha replicato con un secco no, a meno che Hamas non rinunci al controllo della Striscia e riconosca le condizioni del Quartetto. Una posizione più intransigente di quella del Segretario di Stato americano Rice. La completa indisponibilità di Abu Mazen rende più complicata la soluzione della crisi di Rafah, visto che Hamas cercherà di mantenerlo aperto e libero fino al raggiungimento di un accordo congiunto con l'Egitto e l'ANP. Mubarak, preoccupatissimo per l'effetto dirompente dei palestinesi nel Sinai, ha invitato Abu Mazen e Mesh'al al Cairo per negoziare una soluzione al più presto.

Dopo l'abbattimento del muro, il governo israeliano ha affermato che ormai Gaza non è più un problema di Gerusalemme, ma che gli egiziani dovranno prendersi carico degli aiuti alla Striscia. Poche ore dopo è arrivata la smentita della Corte Suprema israeliana che, accettando una petizione delle associazioni per i diritti civili, ha ordinato al governo e all'esercito di riprendere il normale approvvigionamento di cibo e carburante per Gaza. Al momento dunque la situazione è nel caos, con conflitti espliciti tra governo, giudici e esercito sul da farsi, in attesa della caduta imminente del governo Olmert.

Quel che è certo è il totale fallimento della strategia israeliana basata sull'escalation militare e sulla punizione collettiva della popolazione civile. Invece di rinchiudersi nella solita spirale di violenza di attacco e rappresaglia, Hamas ha scelto questa volta una soluzione pacifica e “creativa.” Il terrore per gli israeliani, di cui si discute sulla stampa, è che questo nuovo spirito creativo contagi anche la West Bank, dove l'onnipresente muro di separazione strangola città e villaggi palestinesi. I paragoni con il muro di Berlino non mancano sulla stampa di sinistra: potrebbe non essere lontano il giorno in cui i palestinesi della West Bank, prendendo esempio dal successo dei fratelli a Gaza, decidano di marciare in massa contro il muro per reclamare i propri diritti. Curiosamente, nel caso di Gaza si è trattato dei diritti di consumatori, per la gioia dei commercianti egiziani di Rafah.

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