di Eugenio Roscini Vitali

Ogni giorno centinaia di migliaia di palestinesi della Striscia di Gaza si vedono privati dei più elementari diritti civili; il loro principale obbiettivo non è solo il riconoscimento di una identità nazione, ma anche la disperata ricerca di generi di prima necessità, cibo, medicinali, cose necessarie alla mera sopravvivenza. Dopo aver visto abbattere il muro di metallo arrugginito alto circa 8 metri che da anni taglia in due Rafah, gli abitanti della Striscia si erano sentiti un po’ più simili agli altri, a chi la libertà l’assapora ogni giorno. Munito di telecamere e sofisticati sensori, l’ultimo confine era stato innalzato dagli israeliani nel 2005, anno in cui la Striscia è stata definitivamente sigillata e trasformata in un carcere a cielo aperto di 360 chilometri quadrati, popolato da un milione e mezzo di civili dei quali il 48% ha un’età inferiore a 14 anni e meno del 3% supera il 70mo anno di vita. Adesso che quel varco si sta richiudendo e il sapore della libertà inizia a sbiadire, l’amara realtà di tutti i giorni diventa ancora più dura. John Ging, dirigente della locale agenzia delle Nazioni Unite (UNRWA), è certo che per i palestinesi l’essere entrati in Egitto per qualche ora è un viatico che li aiuterà ad affrontare meglio un nuovo periodo di prigionia ma questa non è certo la soluzione ad una crisi umanitaria che sta assumendo proporzioni devastanti. Sotto la costante pressione di Usa e Israele, l’Egitto sta riprendendo il controllo militare di Rafah. Per isolare i palestinesi il Cairo ha già interrotto l’invio di tutti i rifornimenti diretti verso le città di confine; la nuova frontiera con i Territori si sposta temporaneamente verso ovest di 200 chilometri, lungo il Canale di Suez. Le forze della natura diventano il nuovo alleato del presidente egiziano Hosni Mubarak che così, oltre all’esercito, interpone tra se e la Striscia di Gaza il deserto del Sinai.

Al contrario di quanto speravano i leader di Fatah, con l’abbattimento della frontiera artificiale Hamas ha aumentato il suo consenso tra i palestinesi, rafforzato la sua posizione all’interno della Striscia e strappato la solidarietà del mondo arabo. Ma gli effetti potrebbero soprattutto sentirsi fuori dai territori. Infatti, ora il premier israeliano Olmert ha l’opportunità di scrollarsi di dosso il peso del problema umanitario di Gaza, una questione che sta attirando l’attenzione di gran parte della comunità internazionale e che prima o poi avrebbe messo in seria difficoltà il suo governo. Al contrario l’iniziativa di Hamas diventa un pericolo per Mubarak che ora rischia di trovarsi tra le mani un milione e mezzo di palestinesi.

In effetti, per trovare una soluzione che gli permettesse di chiudere definitivamente con Gaza, Israele potrebbe aver spinto i palestinesi ad un’azione estrema. In questo modo, dopo 60 anni, riconsegnerebbe agli arabi il problema palestinese, un questione che ha spesso perso di vista il suo vero obbiettivo e si è trasformata in una mera questione arabo-israeliana.

Tornando indietro nel tempo, il primo caso in cui gli arabi voltarono le spalle ai palestinesi risale al 3 gennaio 1919, giorno in cui fu firmato l’Accordo tra l'Emiro Faysal I, figlio dello Sceriffo della Mecca e prossimo Re del Hijazl, e Chaim Weizmann, futuro presidente dell'Organizzazione mondiale sionista. L’accordo Faysal-Weizmann, che poi saltò a causa dei piani segreti anglo-francesi, prevedeva una cooperazione arabo-ebraica per la creazione di uno Stato ebraico in Palestina e lo sviluppo di una vasta nazione araba in Medio Oriente. Venne poi la volta dei Paesi arabi che a partire dalla proclamazione dello Stato di Israele trasformarono i diritti del popolo palestinese in una questione panaraba. In seguito toccò al presidente egiziano Gabal Abdel Nasser appropriarsi della loro causa e in nome degli interessi arabi, utilizzò la tragedia palestinese come arma politica contro Israele e contro l’occidente. Quindi arrivò il turno di Giordania e Siria: Amman lanciò una gigantesca repressione contro i feddayn e le basi dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di Yasser Arafat che causò quattromila morti; Damasco, senza mezzi termini, cercò di sradicare il problema palestinese dal Libano.

Adesso, a più di 40 anni dalla nascita dell’OLP, fondata al Cairo nel 1964, il problema palestinese torna sul tavolo della presidenza egiziana. Il compito è sicuramente difficile, soprattutto per le simpatie che raccoglie il movimento islamico del “deposto” premier Ismail Haniyeh all’interno dell’opposizione egiziana e per l’appoggio politico offerto dai Fratelli musulmani, principale spina nel fianco del presidente Mubarak. Anche se gli uomini del movimento islamico sarebbero in procinto di riconsegnare il controllo militare del confine all’Egitto, il Cairo starebbe cercando di emarginare Hamas da qualsiasi trattativa. Ma questo fino a che punto è possibile?

Per risolvere la crisi Mubarak avrebbe indicato come interlocutore privilegiato il presidente palestinese Mahmoud Abbas; una mossa azzardata, soprattutto dopo aver invitato Hamas a cooperare con l’Autorità Palestinese, “la sola ad essere legittimamente riconosciuta in Palestina”. Non considerare Hamas una forza politica che rappresenta il 50% dei palestinesi è un errore politico già visto, ma per Mubarak potrebbe essere un modo per riconsegnare la Striscia di Gaza agli israeliani.


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