di Elena Ferrara

Cento morti per l'opposizione, "solo" dieci per i cinesi. Quali che siano le cifre della rivolta e della repressione, soffia ormai il vento del boicottaggio sulle Olimpiadi 2008 che si terranno a Pechino a partire dall’8 agosto. L’occasione per avviare una campagna anticinese viene dal Tibet dove i monaci di Lhasa scendono in piazza dando vita a manifestazioni contro il governo e contro il Partito Comunista. Le rivendicazioni sono quelle di sempre: autonomia totale dalla Cina, formazione di una repubblica autonoma basata sull’autorità del settanduenne Dalai Lama. Le autorità locali rispondono sostenendo che i disordini sono orchestrati dalla “cricca del leader spirituale Dalai Lama”. Ma si tratta di accuse che un portavoce del governo tibetano in esilio in India definisce “totalmente infondate”. E mentre infuriano le polemiche a livello diplomatico, si registrano sul campo del Tibet nuovi scontri con morti e feriti. La repressione è dura e l’informazione è lasciata agli inviati e ai corrispondenti dell’emittente della Cia - Radio Free Asia - da sempre impegnati nelle regioni tibetane e al lavoro nei vari monasteri. Si sta giocando, quindi, una grossa partita perchè l’occasione delle Olimpiadi fornisce un’ottima cassa di risonanza per quei tibetani che non hanno mai accettato il potere cinese. Numerose intanto da ogni parte del mondo occidentale le proteste contro la repressione militare ordinata da Pechino. Lo stesso Dalai Lama chiede di interrompere la spirale della violenza. “Esorto i miei compatrioti - dice in un messaggio - a non fare ricorso alla violenza. Perchè queste proteste dimostrano il profondo risentimento della gente del Tibet verso l'attuale governo. Come ho sempre detto, l'unità e la stabilità ottenuti dalla violenza bruta possono al massimo essere una soluzione temporanea. E' irrealistico aspettarsi unità e stabilità sotto un simile governo e questo non contribuirà a trovare una soluzione pacifica e durevole". Anche il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, rivolge un appello a tibetani e cinesi per “evitare scontri e violenze”. Interviene ovviamente la Casa Bianca che da tempo soffia sul fuoco della rivolta tibetana. Washington si dice “rammaricata” per le violenze e richiama la Cina al rispetto della cultura tibetana. E il portavoce del presidente americano ricorda che gli Usa "hanno sempre detto che Pechino deve dialogare con il Dalai Lama". Un concetto analogo è ribadito anche dal portavoce del Dipartimento di Stato Sean McCormack: "E' molto importante - dice - che il governo cinese apra un dialogo con il Dalai Lama”.

Dall’Italia si fa vivo il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, che chiede alle autorità cinesi “di porre fine alla repressione e di avere rispetto dei diritti dei tibetani e delle loro tradizioni”. Interviene anche il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, il quale ricorda che “i leader europei hanno approvato un testo che invita Pechino alla moderazione” e chiede poi che “i manifestanti arrestati siano rilasciati”. Ma nello stesso tempo il capo della diplomazia di Parigi non fa riferimento alcuno ai Giochi olimpici dal momento che la Francia non è favorevole a un boicottaggio.

Ma se le notizie di carattere politico-diplomatico corrono sui canali dell’informazione ufficiale, quelle relative alla vita del Tibet in questo momento sono per la maggior parte di fonte americana e delle varie organizzazioni “non governative” che si trovano ad operare a Lhasa. L’agenzia Ansa, dal canto suo, riferisce che alcuni testimoni avrebbero visto persone in borghese su delle automobili sparare sulla folla, e hanno descritto strade "piene di sangue". Da parte cinese c’è l’agenzia ufficale Nuova Cina che nell’edizione in inglese conferma che "ci sono dei feriti ricoverati in ospedale" dopo che testimoni avevano riferito di aver udito numerosi colpi di arma da fuoco nei pressi del piccolo monastero di Ramoche dove centinaia di monaci - in processione per la “passeggiata sacra” intorno al tempio di Jokhang - avevano inscenato una manifestazione inneggiando al Dalai Lama.

E sempre le agenzie di stampa occidentali - citando testimoni in loco - riferiscono che mentre si svolgevano le proteste gli agenti di polizia erano in numero esiguo, tanto che non erano riusciti ad impedire a numerosi civili di unirsi ai monaci. L’intera zona è restata coperta per alcune ore dai gas lacrimogeni mentre alcuni manifestanti venivano attaccati con colpi di manganello. Due automobili della polizia militare sono state rovesciate e date alle fiamme. Ed ora, a quanto sembra, l'ondata di proteste, non accenna a diminuire.

Gli osservatori politici presenti a Pechino fanno notare che la “rivolta” attuale è la più estesa dal 1989. Da quando, cioè, l'allora segretario del Partito Comunista del Tibet - e oggi presidente cinese Hu Jintao - impose la legge marziale nell’intera regione. E il fatto che ora le proteste si estendano a macchia d’olio per tutto il paese sta a significare che si è ad un momento di svolta. Va infatti rilevato che alcuni giorni fa, ricordando l’anniversario della rivolta anticinese del 1959 (quella che si concluse con la fuga in India del Dalai Lama), molte proteste si sono verificate anche nelle aree a maggioranza tibetana delle province del Gansu e del Qinghai (la regione che i tibetani chiamano Amdo). Mentre le notizie si susseguono e mentre è impossibile valutare la loro attendibilità gli attivisti della “Free Tibet Campiagn” riferiscono che "alcuni" lama di un altro monastero, quello di Sera, sono in sciopero della fame per chiedere la liberazione dei loro compagni arrestati. Si dice anche che due monaci dei monasteri di Drepung e Ganden - ora al centro delle proteste - sarebbero in gravi condizioni dopo aver tentato di suicidarsi.

Tutti gli edifici statali sono circondati dalla polizia militare, ma le voci su una eventuale dichiarazione dello stato d'emergenza, non sono confermate pur se a Pechino - dove si è svolta la grande assemblea dei deputati - il clima resta teso. Si teme che la situazione tibetana precipiti trascinando in un vortice anche il potere centrale. E in questo caso il boicottaggio internazionale delle Olimpiadi sarebbe, per Pechino, l’ultima preoccupazione.

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