di Elena Ferrara

Nelle acque ad est di Taiwan spuntano due portaerei statunitensi, mentre dalle urne delle elezioni presidenziali - che si sono appena svolte nell’isola coinvolgendo 17 milioni di abitanti - esce vincitore il leader dell'opposizione Ma Ying-jeou del Partito Nazionalista (Kuomintang) il quale va così a prendere il posto di Chen Shui-bian, che è stato in carica per due mandati dopo aver ingaggiato, per anni ed anni, una lotta contro il tempo e contro il governo cinese in relazione ad una eventuale riunificazione dell’isola. Si è quindi ad un nuovo giro di boa dal momento che il nuovo eletto - che è stato sindaco della capitale Taipei - sostiene una linea conciliatoria nei confronti di Pechino, dichiarandosi pronto a rafforzare la collaborazione economica con la metropoli, tanto che nel corso della campagna ha affermato di voler incrementare i collegamenti aerei dicendosi nello stesso tempo favorevole ad allentare il tetto che limita il valore degli investimenti taiwanesi sul continente, per creare un mercato comune tra le due rive dello Stretto. Taiwan rappresenta poi per la Cina una realtà di estremo valore geoeconomico dal momento che il paese - dalla fine degli anni '40 - ha conosciuto una notevole crescita economica, favorita da massicci investimenti statunitensi, conseguendo un rapido sviluppo industriale accompagnato dalla valorizzazione e dall'ammodernamento delle attività primarie. Ma se sul piano delle relazioni bilaterali immediate si registrano passi distensivi resta pur sempre valido il dissenso di fondo che data dal 1949 quando i comunisti di Mao vinsero la guerra civile ed i nazionalisti di Chang Kai-shek si rifugiarono, appunto, nell’isola. Con la Cina che ha sempre reclamato la propria sovranità su questi 35873 chilometri quadrati avanzando, un tempo, anche minacce militari. Si è però trovata - da parte dei due governi, quello nazionalista di Taipei e quello comunista di Pechino - una mediazione, che porta il nazionalista Ma Ying-jeou a presentare un programma più sfumato - vero modello di tolleranza - nel quale si precisa che la linea di condotta verso la Cina Popolare si ispirerà alla formula dei “tre no”: no all’indipendenza dell’isola, alla riunificazione ed all’uso della forza.

Nello stesso tempo, nel “programma”, spuntano toni distensivi che evidenziano l’intenzione di riprendere i colloqui con Pechino attraverso diverse fasi che dovrebbero condurre prima alla normalizzazione dei rapporti economici e, infine, alla cessazione delle ostilità e ad una pace duratura. Ma un passaggio di estremo valore e rischio sarà quello relativo al Referendum sull’entrata dell’isola nell’Onu non già col suo nome ufficiale “Repubblica di Cina”, bensì come Taiwan.

L’isola, è noto, da trentasette anni non ha più una rappresentanza alle Nazioni Unite, ovvero da quando nel 1971 l’Assemblea generale ammise la Cina Popolare espellendo contemporaneamente i delegati del governo di Taipei, che da allora non è considerato altro che una provincia di Pechino priva di qualsiasi soggettività internazionale. E secondo la Cina Popolare il fatto che Taiwan abbia un suo governo autonomo è solo uno strascico storico. Ma è chiaro che lo status giuridico di Taiwan è ancora un rebus, visto che l’isola gode di un’indipendenza de facto ma non può essere ammessa a quelle organizzazioni internazionali per le quali la denominazione ufficiale costituisce un requisito per l’ammissione. Non c’è, in sostanza, nessuna revisione storica e strategica.

Attualmente, Taiwan intrattiene rapporti diplomatici ufficiali con appena 23 Paesi, dei quali il più importante è il Vaticano, anche se mantiene comunque relazioni non ufficiali con un gran numero di Stati attraverso i suoi Uffici di rappresentanza. Ora, se il referendum darà un esito positivo, si potrebbe aprire un periodo di difficoltà per le relazioni con la Cina perchè Pechino giudicherebbe tale fatto come un ulteriore passo verso l'indipendenza formale.

In questo caso la politica cinese si troverebbe ad affrontare una serie di problemi di geopolitica asiatica. Perchè Taiwan - pur con tutte le sue particolarità di area indipendente e tradizioni politico-istituzionali - rappresenta la testa di ponte della penetrazione cinese nel Pacifico e, dunque, una base formidabile per la realizzazione dei suoi interessi nazionali. Infatti se l’isola fosse riunificata alla Cina, questa riuscirebbe a spezzare il cordone costruito dall’America per bloccare la sua espansione in un Pacifico occidentale, che ha una rilevanza strategica di gran lunga maggiore - ad esempio - rispetto al controllo americano delle Hawaii.

Le elezioni di questi giorni rappresentano, comunque, una sorta di blocco temporaneo a polemiche e contrasti e si può dire che il confine tra Pechino e Taipei è più marcato, pur se resta in piedi quella “teoria dei due Stati” che agita da sempre le diplomazie delle due capitali. Questo vuol dire però che per ora regna la tregua. Tanto che Frank Hsieh Chang-ting - il personaggio che si è opposto al leader del Kuomintang - accetta la sconfitta, ma con una certa dose di polemica tutta interna non manca di far rilevare che il fatto più importante consiste nell’aver sconfitto toni ed atteggiamenti intimidatori, e sottolineando, nello stesso tempo, che il numero di abitanti che si definiscono taiwanesi sia passato dal 30 al 70 per cento. E che, soprattutto, nell’isola sia sorta una nuova borghesia che riconosce in lui un leader capace di contenere le spinte degli avversari che oggi sono quelli che si riconoscono nelle forze del partito del Kuomintang.

E si capisce bene che questo spartiacque che si è formato non è simbolico. Lo ricordano le navi americane che tengono l’isola sotto controllo scrutando oltre l’orizzonte per scoprire eventuali “manovre” della flotta di Pechino.

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