di Eugenio Roscini Vitali

Nel vicino Medio Oriente Condoleezza Rice è ormai di casa e quella di marzo è la tredicesima volta che si reca nella regione; l’ennesimo tentativo fatto dal Segretario di Stato americano per cercare di capire quello che è rimasto di un processo di pace che sembra ormai naufragato in un mare di promesse, ipocrisie e falsità. Che la crisi sia arrivata ad un punto di non ritorno lo dimostra il fatto che non appena atterrata all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv la Rice, anziché fare tappa in Israele, si è diretta a Ramallah dove ha incontrato Mahmoud Abbas. Al termine del meeting tenutosi nella Muqata’a, il quartier generale dell'Autorità Nazionale Palestinese, il Segretario di Stato americano ed il Presidente palestinese hanno rilasciato una conferenza stampa congiunta durante la quale Abbas ha ribadito che allo stato attuale non esistono le condizioni per poter continuare le trattative di pace con Israele, almeno fino a quando non verrà garantito un cessate il fuoco duraturo e che comprenda la Striscia di Gaza e la West Bank. Da parte palestinese il problema fondamentale rimane comunque la posizione di Israele: Gerusalemme continua ad anteporre la sua sicurezza a qualsiasi altra questione, dimenticando che questo è un tema di vitale importanza che non può essere superato con l’uso delle armi e che non deve essere considerato una prerogativa israeliana. Mentre da Ramallah il presidente Abbas non ha perso l’occasione per ricordare i palestinesi morti nelle scorse settimane (120 secondo le ultime stime) la Rice ha ribadito che gli Stati Uniti stanno facendo di tutto per riaprire il tavolo dei negoziati e che Washington considera il processo di pace una scelta strategica per il Medio Oriente, un obbiettivo inalienabile che deve essere raggiunto ad ogni costo. Un concetto di pace che stride però con le manovre americane denunciate dalla rivista statunitense Vanity Fair, che in un articolo apparso nell’edizione online di aprile parla degli appoggi forniti a Muhammad Dahlan, uomo forte di Fatah che lo scorso anno avrebbe operato su input della Casa Bianca affinché Gaza diventasse teatro di una sanguinosa guerra civile. Un colpo di mano organizzato per rovesciare il governo Hamas ma che, al contrario, si è tramutato in uno scandaloso insuccesso.

Un fallimento che l’autore dell’inchiesta, David Rose, paragona ad un mix di Iran-Contras e Baia dei Porci e che vede coinvolti il presidente George W. Bush, Condoleezza Rice, e il vice consigliere alla Sicurezza Nazionale, Elliott Abrams. Il piano, denominato “Piano B”, ha di fatto scatenato una sanguinosa guerra civile costata centinai di vite umane, ma non è certo riuscito a concludere anticipatamente la storia di un governo legittimamente eletto dal popolo palestinese, anzi gli ha permesso di acquisire il controllo militare dell’intera Striscia di Gaza.

Arrivare in Medio Oriente con le credenziali di un tentato golpe non deve essere certo stato facile per la Rice, che ha comunque evitato di rispondere a tutte le domande legate al “Piano B”. Oltre al Segretario di Stato, a Ramallah erano presenti molti dei personaggi coinvolti nell’infausto progetto: tra loro il responsabile per gli affari americani in Medio Oriente, David Welch, il console generale a Gerusalemme, Jacob Walles, e lo stesso Elliott Abrams.

L’inchiesta di David Rose, già famoso per il libro “Guantanamo: The War on Human Rights”, è supportata da documenti e testimonianze raccolte sia negli Stati Uniti che in Palestina ed Israele, informazioni che confermano il coinvolgimento del Presidente americano, che avrebbe approvato l’operazione, e del Segretario di Stato, che ne avrebbe resa possibile la realizzazione. Secondo alcuni analisti, lo scema del “Piano B” ricorda in modo inequivocabile l’Affare Iran-Contras, soprattutto per il fatto che Abrams fu uno dei personaggi coinvolti nella peggiore operazione sotto copertura mai gestita dall’intelligence statunitense, nata dal fallimentare intreccio di due “covert actions”: il supporto in favore dei “contras” in Nicaragua, iniziato nel 1981, e il tentativo di negoziare clandestinamente con il governo iraniano la liberazione degli ostaggi statunitensi rapiti in Libano dagli Hezbollah nel 1984. Nel 1992 Abrams, accusato per aver utilizzato informazioni riservate, fu graziato e riammesso alla Casa Bianca da George Herbert Walker Bush, padre dell’attuale presidente. Insieme a lui furono reintegrati altri cinque imputati: Duane R. Clarridge, Alan Fiers, Clair George, Robert C. Mc Farlane e Caspar W. Weinberger.

Nell’articolo pubblicato da Vanity Fair, David Rose parla anche degli 84 milioni di dollari stanziati alla fine del 2006 dal governo statunitense per finanziare lo smantellamento della rete terroristica palestinese e ristabilire ordine e legalità all’interno della Striscia di Gaza e della West Bank. Secondo Muhammad Dahlan, che ha respinto molte delle accuse mosse da Rose, il denaro destinato al generale Keith Dayton, rappresentante americano in Palestina che da due anni lavora per rafforzare le milizie di Fatah in funzione anti-Hamas, non sarebbe mai arrivato. Se questo fosse vero allora dove sono finiti i fondi per la lotta al terrorismo e chi ha finanziato la campagna di Fatah? Le ipotesi più plausibili possono essere due: Dahlan mente e copre gli autori del “Piano B”; gli stanziamenti sono stati congelati per poi prendere altre strade, altre “covert actions”; purtroppo solo la Rice e i suoi fidi collaboratori possono dare una risposta plausibile a questa domanda.

Intanto il tema di fondo portato avanti dal Segretario di Stato americano rimane lo stesso: il movimento islamico radicale è l’unico responsabile dello stato di crisi israelo-palestinese e nemico della pace. Una posizione che però non tutti condividono. Ephraim Halevy, ex capo del Mossad, l’agenzia d’intelligence israeliana, è convinto che a Gaza stia crescendo una corrente moderata che potrà consolidare le sue posizioni solo dopo che Israele allenti la sua pressione sui Territori e la Casa Bianca appoggi l’ingresso di Hamas nel processo di pace.

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