di Michele Paris

Barack Obama ha compiuto martedì un passo probabilmente decisivo verso la conquista della nomination democratica ottenendo, grazie alla vittoria nelle primarie in Oregon, la maggioranza assoluta dei delegati del proprio partito che alla Convention saranno vincolati alla scelta del candidato da proiettare verso l’Election Day. Un numero di delegati quello conquistato dal Senatore dell’Illinois ormai praticamente insuperabile dalla sua avversaria Hillary Rodham Clinton, la quale ha invece ottenuto una netta vittoria con un margine di 36 punti percentuali in Kentucky, replicando l’affermazione di sette giorni fa in West Virginia (con un vantaggio di 41 punti) e nelle precedenti consultazioni in Stati che presentano una simile composizione sociale dell’elettorato (Ohio, Pennsylvania, Indiana). Ben decisa a rimanere in corsa nonostante la strada a dir poco in salita e le pressioni per un suo abbandono che da più parti stanno arrivando per evitare di danneggiare il Partito in vista delle presidenziali, Hillary sta però inesorabilmente e significativamente scomparendo dai discorsi di un Obama che da un paio di settimane a questa parte pare essere entrato in una nuova fase della propria campagna elettorale nella quale dovrà fronteggiare a sua volta nuove e impegnative sfide. In primo luogo dovrà adoperarsi per attrarre a sé l’elettorato della ex First Lady, frustrato dall’esito di una campagna elettorale che solo pochi mesi fa veniva prospettata come una inevitabile cavalcata verso la nomination, e soprattutto quella “working-class” bianca finora estremamente diffidente nei suoi confronti. Decisivo sarà anche l’appeal che Obama riuscirà a stimolare nei confronti di ispanici ed ebrei, questi ultimi preoccupati dalle dichiarazioni del Senatore che hanno fatto intravedere un possibile percorso di avvicinamento all’Iran, e non solo, una volta eletto presidente, nonché la sua capacità di fronteggiare gli attacchi che già stanno arrivando dal candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain, in particolare sul delicato tema della sicurezza nazionale.

Come ampiamente previsto dunque, Obama ha prevalso agevolmente in Oregon, Stato tradizionalmente di orientamento progressista e con una consolidata preferenza per i candidati liberal, con il 58,3% delle preferenze, contro il 41,7% di Hillary, ma la pesante sconfitta subita in Kentucky ha messo in luce ancora una volta le sue difficoltà a compiere progressi nella regione dei Monti Appalachi, dove prevale un elettorato bianco, a basso reddito e a bassa scolarizzazione, e nei grandi Stati industriali penalizzati dalla crisi economica. Angustie evidenziate anche dai sondaggi che indicano come in Kentucky, così come negli Stati dove Hillary ha vinto di recente con un ampio margine, solo la metà degli elettori democratici che hanno votato per la ex First Lady si sono dichiarati disposti a sostenerlo nelle elezioni generali contro McCain.

Dal momento che l’assegnazione dei delegati democratici viene fatta secondo il metodo proporzionale, la vittoria a metà di martedì consente comunque a Obama, secondo il parere dei membri del suo staff, di ottenere la maggioranza dei delegati in palio nelle primarie e caucus in corso ormai dai primi di gennaio (il 50,7% secondo un conteggio Associated Press). Tale risultato dovrebbe indurre nei prossimi giorni un sempre maggior numero di superdelegati, cioè membri del Congresso, Governatori e altre personalità di spicco del Partito che avranno libertà di scelta alla Convention di Denver a fine agosto, a schierarsi dalla sua parte seguendo il trend già in corso da parecchie settimane a questa parte e permettergli così di raggiungere la soglia dei 2.026 delegati necessari per ottenere aritmeticamente la nomination democratica. Già nei giorni scorsi Obama aveva incassato l’appoggio dell’ex Senatore della North Carolina e due volte candidato alla nomination John Edwards, noto per le sue battaglie a favore degli strati sociali più poveri e dunque utile nella conquista dei voti di questi elettori.

Di fronte ad una folla festante riunita a Des Moines, nell’Iowa, nella tarda serata di martedì Obama, dopo aver espresso il proprio dolore, come ha fatto allo stesso modo anche Hillary Clinton, per la notizia diffusa nel primo pomeriggio in America riguardante il Senatore Edward M. Kennedy al quale è stato diagnosticato un cancro al cervello, ha riconosciuto di avere ormai a portata di mano il successo anche se ha scrupolosamente evitato di dichiarare vittoria ribadendo il diritto della sua rivale di continuare la corsa fino al 3 giugno, data nella quale si svolgeranno le ultime primarie democratiche, per non alienarsi il futuro sostegno dei suoi elettori.

La Senatrice di New York da parte sua ha salutato la vittoria in Kentucky sottolineando il suo presunto vantaggio sul rivale nel numero dei voti popolari raccolti finora. Un calcolo questo alquanto discutibile e fondato sull’inclusione delle primarie di Michigan e Florida andate in scena a gennaio, dove però i due candidati non hanno svolto campagna elettorale perché entrambi gli Stati vennero privati delle rispettive rappresentanze dopo aver violato le regole del Partito Democratico anticipando la data delle consultazioni rispetto al calendario ufficiale.

Aggiungendo al numero dei delegati conquistati durante le primarie (“pledged delegates”) quello dei superdelegati (“unpledged delegates”) che già hanno espresso la loro posizione, Obama dovrebbe raggiungere, sempre secondo la stima della Associated Press, un totale di 1.956 delegati complessivi, contro i 1.776 di Hillary Clinton, portandosi così a soli 70 dalla soglia necessaria per conquistare matematicamente la nomination. La battaglia di Hillary per ottenere l’appoggio dei superdelegati, oltre che sul suo ipotetico vantaggio nel bilancio dei voti popolari, si basa ormai quasi esclusivamente sul principio che essi dovrebbero operare la loro scelta di campo tenendo in considerazione il candidato più forte in vista della sfida con i repubblicani.

Una tale presa di posizione da parte dei superdelegati apparirebbe tuttavia come un sostanziale ribaltamento della volontà popolare e produrrebbe il rischio concreto di alienare al Partito l’appoggio di buona parte dell’elettorato di colore. I sondaggi fin qui proposti inoltre, anche se poco indicativi a poco meno di sei mesi dalle presidenziali, non sembrano segnalare la possibilità che Hillary possa fare meglio di Obama nei confronti di McCain.

Anche se la battaglia appare dunque ormai prossima all’epilogo, come suggerisce anche l’alleggerimento dei toni della stessa Hillary per evitare di danneggiare ulteriormente Obama, le tensioni sorte negli ultimi mesi intorno ai temi razziali e di genere potrebbero alimentare non poche difficoltà per un Partito Democratico che fino a poco tempo fa sembrava invece poter vincere a mani basse a novembre ai danni di quello repubblicano logorato dai due disastrosi mandati di George W. Bush. Per scongiurare questo rischio, la campagna elettorale del Senatore afro-americano sta già programmato una serie di visite negli Stati più delicati in vista di novembre e contestualmente sta calibrando il proprio messaggio per affrontare quegli ostacoli che durante le primarie gli hanno causato non pochi contrattempi. In primo luogo, la questione legata all’ex pastore della Chiesa frequentata da Obama a Chicago, il reverendo Jeremiah A. Wright jr., resosi protagonista dal puplito e sui media americani per aver accusato il governo degli Stati Uniti, tra le altre cose, di essere in parte responsabile degli attacchi dell’11 settembre e di aver deliberatamente diffuso il virus dell’HIV per decimare la popolazione di colore.

Le preoccupazioni legate all’insofferenza dei democratici che durante le primarie hanno votato a favore di Hillary Clinton dovrebbero invece rientrare almeno parzialmente una volta scelto il candidato. Negli Stati di Pennsylvania, Ohio, Indiana, West Virginia e Kentucky in particolare i sondaggi hanno evidenziato come una buona parte dei votanti abbia dichiarato di preferire McCain rispetto a Obama, o l’astensionismo, in prospettiva Election Day. Da qui a sei mesi, una volta spenti i dissapori delle primarie, le opinioni dovrebbero cambiare, soprattutto se Hillary si adopererà per unificare il Partito intorno al candidato che otterrà la nomination.

Dall’Iowa intanto, dove il 3 gennaio scorso partì con una vittoria inaspettata la sua campagna elettorale, Obama ha indirizzato altri attacchi a John McCain dipingendo una sua eventuale elezione come un terzo mandato di George W. Bush, tema questo che potrebbe diventare centrale nella campagna elettorale delle presidenziali e giustificato dal pressoché totale appiattimento fin qui mostrato da parte del Senatore dell’Arizona sulle posizioni dell’attuale inquilino della Casa Bianca su molti temi (Iraq, tasse, sanità).

Gli Stati sui quali Obama concentrerà la propria attenzione e le sue abbondanti risorse economiche (31 milioni di dollari raccolti solo nel mese di aprile) nelle prossime settimane saranno in particolare quelli ritenuti in equilibrio tra i due candidati nelle elezioni generali (“swing States”) e cioè la Florida, il Colorado, il Michigan, il Missouri, la Pennsylvania e l’Ohio, senza però trascurare gli ultimi appuntamenti del calendario democratico delle primarie che prevede ancora le consultazioni a Porto Rico (1° giugno), in Montana e in South Dakota (3 giugno).

Le difficoltà con l’elettorato bianco poi, anche se appaiono più evidenti quest’anno per la presenza del primo candidato afro-americano alla presidenza degli USA, non sono una novità per i democratici. A partire dalle elezioni del 1972 infatti, nessun candidato del Partito dell’asinello è riuscito ad ottenere la maggioranza dei votanti bianchi. Il più vicino a riuscirci fu Bill Clinton nel 1992 quando ne conquistò il 39% contro il 40% di George H. W. Bush. Nel 2004 addirittura, Bush jr. prevalse tra i bianchi con il 58% delle preferenze rispetto al 41% raccolto da John Kerry. Per ovviare a queste difficoltà, Obama avrà però la possibilità di fare appello alla stragrande maggioranza degli elettori di colore, molti dei quali - soprattutto negli Stati del profondo Sud - non sono ancora registrati per poter partecipare alle presidenziali di novembre.

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