di Mario Braconi

Ragionare di diritti umani significa parlare di priorità non negoziabili, assolute, inderogabili: eppure proprio nell’anno in cui si festeggia il sessantesimo anno della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Amnesty International presenta un rapporto in cui è costretta a fare i conti con gli scarsissimi progressi conseguiti in tutto il mondo in tale materia: “I leader mondiali devono porgere le proprie scuse per non aver realizzato la promessa di giustizia e uguaglianza contenuta nella Dichiarazione universale dei diritti umani. Negli ultimi sei decenni molti governi hanno mostrato di privilegiare l'abuso di potere e interessi egoistici piuttosto che il rispetto dei diritti dei popoli che rappresentano.” Secondo Amnesty, se Russia e Cina ce l’hanno messa tutta per mantenere un buon piazzamento nel campionato del vilipendio ai diritti umani, un posto d’onore su quel podio spetta agli Stati Uniti che, a dispetto dei reiterati quanto ipocriti richiami a libertà e democrazia del loro governo, continuano a tenere una condotta caratterizzata da gravissime violazioni (tortura, detenzioni arbitrarie, interrogatori segreti, “amicizie pericolose” con i peggiori tiranni del mondo ecc…). Passa la tentazione di stigmatizzare altri paesi, tuttavia, quando ci si sofferma a leggere il capitolo del Rapporto dedicato all’Italia, che ci consegna l’istantanea di un paese apparentemente incapace di comprendere e stigmatizzare in modo adeguato la sottile ma continua attività di erosione dei diritti, agevolata da una politica superficiale ed emotiva e rafforzata da una memoria collettiva troppo volatile.

In Italia sembrano esserci ad ogni angolo priorità da anteporre al rispetto dei diritti umani: in primo luogo, ovviamente, considerazioni elettoralistiche. Un orrendo crimine perpetrato a Roma a fine 2007 da un rumeno di etnia rom, lungi dal sollecitare qualche riflessione sia pur tardiva in materia violenza sulle donne, è la scintilla che scatena una infuocata campagna di criminalizzazione di massa contro un intero gruppo sociale a suon di dichiarazioni via via più accese provenienti da rappresentanti autorevoli di entrambi gli schieramenti. Un modo sciocco e molto pericoloso di gestire le crisi, il cui unico esito certo è quello di generare o rafforzare paura e rabbia indiscriminatamente orientate ad un gruppo percepito come omogeneo, indipendentemente dalle responsabilità individuali. Si forma così l’humus ideale per l’esplosione di nuova violenza, di cui sentiamo ancora adesso i riverberi tanto sulle strade (roghi di campi nomadi) quanto nelle aule parlamentari, dove si lavora alacremente a misure propagandistiche pasticciate ed inutili, capaci però di produrre altri danni.

A questo proposito, la ONG britannica non nasconde la sua netta contrarietà all’introduzione in Italia del reato di clandestinità, che trasformerebbe automaticamente in un criminale qualsiasi persona che, alla ricerca di asilo politico, sia costretta ad entrare in Italia in modo irregolare, e stigmatizza la possibile estensione del limite massimo di permanenza (non sarebbe più giusto e onesto chiamarla detenzione?) in Centro di Permanenza Temporaneo da due a ben diciotto mesi.

Daniela Carboni, Direttrice dell’Ufficio Campagne e Ricerca di Amnesty, alla conferenza stampa di presentazione del Rapporto si è soffermata su un aspetto tecnico delle misure promesse dal governo Berlusconi: tra di esse potrebbe esservene una che impedisce al richiedente asilo politico di rimanere in Italia nelle more della definizione del secondo grado della sua domanda. In poche parole, nel caso in cui la sua domanda fosse stata rigettata per errore, questa persona sarebbe comunque espulsa, cosa che, oltre che criminale (dato che verrebbe rispedita in uno Stato in cui è probabilmente a rischio di morte o tortura) è anche contraria agli standard internazionali.

Ma, come accade un po’ in tutti i Paesi, sono anche motivazioni di realpolitik a rendere l’Italia un po’ troppo “distratta” sulla tutela dei diritti umani: come è evidente dalle vicende di cronaca (il cosiddetto caso Abu Omar) i vari governi italiani hanno cooperato spesso e volentieri con la CIA o altre agenzie per la sicurezza USA per deportare sospettati di terrorismo in paesi dove gli standard sui diritti umani rendano più agevole l’impiego della tortura. Inoltre, secondo Amnesty International, la segretezza degli accordi tra Italia e Libia relativi al controllo degli sbarchi dei clandestini in Italia, nasconde un compromesso al ribasso con Gheddafi, cui non sono state imposte e forse nemmeno richieste dall’Italia sufficienti garanzie sul rispetto dei diritti umani da parte del governo libico. In particolare, è necessario che l’opinione pubblica italiana, secondo Amnesty più interessata a questi temi di quanto si creda, sia informata su cosa si nasconda dietro agli accordi per il pattugliamento italo-libico del Mediterraneo.

Il Rapporto 2008 ricorda anche come il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura abbia (anche recentemente) sollecitato l’Italia a “rafforzare le misure che possano garantire indagini tempestive, imparziali ed efficaci su tutte le accuse di torture e di trattamenti inumani commessi da membri delle forze dell’ordine italiane”: l’Italia, infatti, non ha mai introdotto il reato di tortura né ha mai ratificato il protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura. Questo passaggio, solo apparentemente tecnico, è invece d’importanza capitale: secondo una ricostruzione dei pubblici ministeri impegnati nella lugubre vicenda delle torture della caserma di Bolzaneto, l’assenza nel nostro codice di una simile fattispecie rende molto difficile punire i responsabili delle torture e dei maltrattamenti. Non c’è da stupirsi dunque se molti dei membri delle forze dell’ordine imputati nei processi per i fatti di Genova non siano mai stati sospesi e che anzi, alcuni di loro, siano stati addirittura promossi.

C’è un’ultima priorità che, nell’agenda dei nostri politici, ha scavalcato quella della tutela dei diritti umani: quella del business italiano delle armi leggere. Amnesty International, evitando di restare abbarbicata a posizioni utopistiche, pone un tema semplice: potrebbero le aziende italiane almeno evitare di vendere armi leggere in paesi in cui s’impiegano bambini soldato? Troppo difficile? O solo poco conveniente?

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