di Eugenio Roscini Vitali

Malgrado gli appelli e il boicottaggio della comunità internazionale, l’ex eroe anticolonialista Robert Mugabe ha vinto; il segreto del successo è stata la brutale repressione elettorale messa in atto dalla leadership militare che ha costretto Morgan Tsvangirai, vincitore del primo turno, a ritirarsi dalla corsa presidenziale. Dall’ambasciata olandese della capitale Harare, Tsvangirai ha chiesto al mondo di non riconoscere il risultato di questa “farsa” e ha denunciato le intimidazioni a cui è stata sottoposta la popolazione. Metodi che ricordano i sistemi applicati nelle peggiori dittature: poliziotti paramilitari che lavorano al servizio del regime; Forze Armate che pattugliano le strade della capitale; militanti dello Zimbabwe African National Union-Patriotic Front (Zanu-Pf), il partito che sostiene Mugabe, che hanno scortato gli elettori ai seggi e minacciato chi protestava contro il regime. Questa è la fotografia dello Zimbabwe, questo è il vero volto di Robert Mugabe, un dittatore che da 28 anni tiene in mano le redini di un potere che non ha nessuna intenzione di cedere e che difficilmente qualcuno riuscirà a strappargli. Costringere il popolo dell’ex Rhuanda meridionale ad accettare il risultato di un’elezione che ha visto la partecipazione di un solo candidato è stata certamente un’azione di forza degna delle più bieche dittature, un vero e proprio esercizio di intimidazione che ha trasformato il verdetto delle urne in una sfida alla comunità internazionale e a chi ha già detto che non riconoscerà un governo che non riflette la volontà popolare. Una volta tanto le grandi organizzazioni internazionali si trovano concordi nel definire l’esito del voto un risultato “fittizio”; la Commissione europea e la Nazioni Unite hanno già decretato la non legittimità del ballottaggio; la Comunità per lo Sviluppo dell'Africa del Sud ritiene la rielezione di Mugabe un atto illecito; i ministri degli Esteri dei paesi industrializzati riconoscono come valido il risultato del primo turno che ha sancito la vittoria di Morgan Tsvangirai; molti paesi si preparano a ritirare i propri ambasciatori e a chiudere le rispettive rappresentanze diplomatiche.

Mugabe aveva indetto il ballottaggio dopo la sconfitta elettorale del 29 marzo scorso. In quella occasione Tsvangirai aveva vinto con il 47% dei voti ma non aveva raggiunto la maggioranza necessaria per essere eletto. Dopo la vittoria del rappresentante del Movement for Democratic Change (Mdc), partito che in parlamento ha la maggioranza relativa, la repressione era dilagata in tutto il paese e le violenze avevano costretto Tsvangirai a ritirarsi dal secondo turno.

Oltre 80 vittime in 11 settimane, un bilancio ufficiale che certamente non rende l’idea della brutalità degli incidenti, ma che è stato sufficiente per far capire al leader dell’opposizione di cosa sarebbero stati capaci i militanti del Zanu-Pf se Magabe avesse perso le presidenziali. A queste vanno poi aggiunti i molti morti di cui si sono perse le tracce; le molte persone scomparse nel nulla, i trecento sostenitori del Mdc che si sono rifugiato nell’ambasciata del Sud Africa per paura di ritorsioni, le vittime dei “ghetti neri” di Johannesburg, fino a poco tempo fa esempio di tolleranza post apartheid, dove negli ultimi mesi un’ondata xenofoba ha colpito migliaia di profughi che durante gli anni sono stati costretti a lasciare lo Zimbabwe, il Mozambico e l’Angola.

Al potere dal 1980, anno di nascita del Paese, Robert Mugabe ha senza dubbio dato prova di una eccezionale dote di sopravvivenza. Sostenendo di essere rimasto uno degli ultimi baluardi all’espansione dell’imperialismo coloniale, Mugabe ha trascinato lo Zimbabwe al collasso economico e le sue scelte politiche hanno prodotto una devastante inflazione che ha ridotto la popolazione alla fame. In questo folle e drammatico progetto, Mugabe è stato sostenuto da molti governi (soprattutto africani) ed è per questo che Nelson Mandela giudica quanto sta accadendo in Zimbabwe il tragico fallimento della leadership africana; sono parole che danno un significato particolare alla crisi politica che sta colpendo l’Africa meridionale.

Mugabe sta infatti dividendo i paesi dell’area: da una parte la Repubblica Democratica del Congo, legata allo Zimbabwe dai tempi dell’invasione ruandese, e la Nabibia; dall’altra il Botswana, la Tanzania, il Mozambico, il Kenia, l’Uganda, l’Angola, fino a ieri grande alleato di Mugabe, e lo Zambia che, come presidente di turno della Comunità per lo Sviluppo dell'Africa del Sud, chiede l’intervento delle Nazioni Unite e l’invio di una missione di peacekeeping.

La questione investe poi la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e molte nazioni europee ed asiatiche che nella regione hanno immensi interessi economici. Le sanzioni proposte da questi paesi stanno però producendo effetti opposti a quelli desiderati e anziché isolare il regime di Mugabe lo stanno facendo diventare nuovamente una vittima dell’imperialismo coloniale. Decisive saranno le scelte prese dal Sud Africa, maggior soggetto politico ed economico dell’Africa meridionale che poco ha da guadagnare dallo scoppio di una guerra civile in Zimbabwe.

Il Sud Africa, a sua volta, è diviso tra la posizione del presidente Mbeki, che ha sempre, se pur indirettamente, sostenuto il regime di Harare e che preme per una soluzione diplomatica, e quella Jacob Zuma, capo dell’Africa National Congress, che chiede la fine delle violenze e l’annullamento delle elezioni. Nonostante tutto, è proprio da Pretoria che potrebbe arrivare una proposta di mediazione per la creazione di un governo di unità nazionale sullo stile keniota che nell’arco di un anno porti lo Zimbabwe a nuove elezioni presidenziali. L’unica soluzione che per ora allontanerebbe lo spettro di un nuovo sanguinoso conflitto civile.


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