di Valentina Laviola

Sono chiamati “detenuti fantasma” nel gergo corrente delle Ong che li cercano e della stampa: sono persone che semplicemente, un giorno, spariscono e le famiglie non ne hanno più notizia. Non vengono arrestati ufficialmente, ma con ogni probabilità sono catturati e detenuti segretamente da qualche parte. Una procedura del genere verrebbe comunemente definita sequestro di persona, se le persone coinvolte fossero cittadini qualunque e se le autorità in questione dovessero rispondere delle loro azioni come in ogni Stato di diritto. Sfumature che si assottigliano quando i detenuti sono ricercati per terrorismo internazionale e se le autorità rispondono al nome di CIA, FBI o esercito degli Stati Uniti, ovvero gli auto-elettisi difensori della democrazia nel mondo. Le organizzazioni che si occupano di difendere i diritti umani - a chiunque essi appartengano - hanno più volte denunciato episodi di quella che definiscono “detenzione extragiudiziaria”, ovvero detenere qualcuno senza che siano formulate accuse ufficiali a suo carico. Questa pratica (si legge nella definizione di una nota enciclopedia on-line) è largamente usata in tempo di guerra, ma rappresenta anche una delle caratteristiche dei regimi totalitari. Un probabile episodio di questo tipo è venuto a galla negli ultimi tempi con il caso di Aafia Siddiqui. Si tratta di una donna pakistana, di 36 anni, estradata alcuni giorni fa a New York dall’Afghanistan per essere processata. La signora, laureata al prestigioso MIT – Massachusetts Institute of Technology – e con un master in neurobiologia, è sospettata di affiliazione ad al-Qaeda ed in particolare di essere responsabile della fabbricazione di bombe. Nel 2003 i familiari hanno perso le tracce sue e dei suoi tre bambini mentre si trovavano in Pakistan e presto hanno iniziato a sospettare che fosse stata presa dalle autorità statunitensi.

È necessario ricordare che la Siddiqui non risulta ricercata per attività terroristica negli elenchi dell’FBI, semplicemente perché non ci sono prove a suo carico in questo senso; compare, invece, fra gli individui che i servizi segreti americani vorrebbero interrogare perché sospettati di avere l’intenzione e le capacità per agire in questo senso. Potremmo comodamente definirla, quindi, una detenzione preventiva, di un’ex-cittadina americana, durata ben cinque anni, in attesa che si trovassero delle prove per incriminarla di qualcosa.

La situazione è cambiata lo scorso 17 luglio, quando le autorità hanno dichiarato di averla arrestata nella provincia di Ghazni, Afghanistan, mentre portava con sé sostanze chimiche, istruzioni per assemblare bombe e cartine del territorio americano – il kit completo del perfetto terrorista. Inizialmente, il capo della polizia afghana della provincia, il generale Khan Mohammad Mujahid, aveva detto che c’erano state discussioni con gli americani riguardo alla custodia della prigioniera, in seguito ha smentito tutto.

In Pakistan si registrano manifestazioni di protesta per la sua estradizione e la sorella Fawzia, da Karachi, a nome della famiglia, si dice sconvolta dall’accaduto. Si specula addirittura sulla paternità dei figli della Siddiqui: chissà quale interesse internazionale può ricoprire se siano di un uomo legato agli attentati dell’11 settembre? Fornirebbe loro una responsabilità ereditata, forse? Attualmente, Aafia Siddiqui sta subendo un processo per tentato omicidio ai danni di due soldati statunitensi che la sorvegliavano per l’interrogatorio seguito all’arresto. Lei avrebbe strappato il fucile ad uno dei due e avrebbe sparato nel tentativo di liberarsi. Alcune fonti sostengono che lei stessa sia rimasta ferita dalla risposta al fuoco dei militari. Se a New York venisse condannata rischia qualche decennio di carcere.

Aafia Siddiqui aveva attirato, in precedenza, l’attenzione dei media poiché è stata la prima donna sospettata di ricoprire un ruolo di una certa importanza nelle alte gerarchie di al-Qaeda. Ben sei organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International e Human Rights Watch, nel 2007, l’hanno inserita nell’elenco delle persone probabilmente recluse in segreto. In particolare, si pensa che fosse tenuta nella base di Bagram. Forse, proprio l’attenzione della stampa e l’attivismo della sua famiglia potrebbero aver costretto le autorità USA ad ufficializzare la sua posizione giudiziaria.

L’evolversi della situazione di Aafia Siddiqui capita in concomitanza con il definirsi del futuro di Salim Hamdan, cittadino yemenita, ex autista di Osama Bin Laden, catturato in Afghanistan nel 2001 e trasferito a Guanatanamo. Il tribunale interno alla tristemente nota base Usa, formato da una giuria di sei militari americani, ha emesso la sua prima sentenza giudicandolo colpevole di terrorismo internazionale (e assolvendolo da altre imputazioni) per aver svolto un ruolo chiave nella pianificazione dell’attentato alle Torri Gemelle. In attesa dell’annuncio della pena, l’amministrazione Bush può registrare una vittoria con la dimostrazione che questi tribunali speciali, creati ad hoc per fronteggiare la guerra al terrorismo, funzionano.

Verrebbe da chiedersi di quante altre persone, terroristi o meno, non verremo mai a sapere, quanti altri spariranno un giorno nel nulla e ricompariranno, magari anni dopo, davanti ad una corte statunitense o all’interno di Guanatanamo. Quanti prigionieri fantasma si trovano già oggi in questa condizione e quanti l’opinione pubblica mondiale è disposta ad accettarne per vedere, teoricamente, garantita la propria sicurezza? Accettare questi sistemi significa, di fatto, vivere in stato di guerra: non importa che le nostre città siano tranquille e che si spari solo in località per noi esotiche, se decidiamo di operare una distinzione netta proteggendo solo una parte del mondo.

È chiaro che nessuno di noi, comuni cittadini, ha i mezzi per sostenere senza ombra di dubbio la colpevolezza o innocenza di Aafia Siddiqui e di tutti gli altri, ma questo fatto, paradossalmente, non rimane che un dettaglio. Ciò che è davvero importante è scegliere se rispettare i diritti umani o no: nel primo caso, bisogna ricordare che essi sono patrimonio di tutte le persone di questo mondo, a qualunque paese appartengano, di qualunque crimine siano accusati.

Il Diritto è una conquista civile, ci distingue dalle società primitive nelle quali ognuno poteva farsi giustizia da solo come meglio credeva, stabilisce delle regole ugualmente valide e così ci tutela tutti, accusatori ed accusati. Rinunciare a tutto questo, pensare che c’è qualcuno che in qualsiasi momento può prelevarci da casa nostra e farci sparire (magari perché abbiamo detto qualcosa di sbagliato al telefono) ci fa davvero sentire più tranquilli?


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