di Michele Paris

Al termine di un processo di selezione condotto per due mesi in gran segreto, a ridosso dell’apertura della convention del proprio partito il candidato democratico alla presidenza degli USA Barack Obama ha finalmente annunciato l’attesissima scelta del suo “running mate”. A correre con il senatore dell’Illinois nel ruolo di candidato alla vice-presidenza sarà il quasi 66enne senatore del Delaware Joseph R. Biden jr. Mettendo da parte qualsiasi ipotesi capace di rafforzare quel messaggio di cambiamento che aveva caratterizzato la sua irruzione sulla scena politica americana, Obama ha optato per una decisione fortemente condizionata dalle difficoltà incontrate durante le primarie nei confronti degli elettori appartenenti alla working-class e, soprattutto, da quelle legate alla sua inesperienza in politica estera ed emerse nelle ultime settimane in seguito alla crisi russo-georgiana. Biden infatti, da oltre trent’anni membro del Senato americano, grazie alla sua biografia e all’esperienza politica accumulata, dovrebbe teoricamente colmare i vuoti che gli elettori sembrano temere nel curriculum del primo politico afroamericano seriamente candidato alla Casa Bianca nella storia di questo paese. L’annuncio ufficiale dell’avvenuta scelta è stata diramata con un messaggio e-mail di avviso, recapitato dal quartier generale della campagna elettorale di Obama a tutti i propri sostenitori. I due candidati democratici sono poi apparsi entrambi in pubblico a Springfield, nell’Illinois, dove Obama aveva inaugurato la propria corsa alla presidenza un paio di anni fa e da dove hanno dato inizio ad un intenso programma di una settimana che presumibilmente monopolizzerà nuovamente l’attenzione dei media d’oltreoceano almeno fino alla convention repubblicana in programma dall’1 al 4 settembre. Mentre la candidatura di Hillary Clinton era tramontata ormai da tempo, quella di Biden è finita per prevalere solo negli ultimi giorni a discapito degli altri favoriti: il senatore dell’Indiana Evan Bayh e i governatori di Virginia e Kansas Tim Kaine e Kathleen Sebelius.

Eletto per la prima volta al Senato americano a 29 anni, Joe Biden proviene da un’umile famiglia cattolica di origine irlandese. Nativo della Pennsylvania, il candidato democratico alla vice-presidenza potrebbe contribuire in maniera decisiva alla conquista dei 21 voti elettorali assegnati a novembre da questo importantissimo stato dove è tuttora estremamente popolare. Durante gli oltre tre decenni trascorsi tra le aule del Congresso, Biden si è guadagnato un certo prestigio alla guida di importanti commissioni parlamentari. Dal 1987 al 1995 ha presieduto l’autorevole “Judiciary Committee”, periodo durante il quale ebbero luogo le travagliate nomine alla Corte Suprema dei discussi giudici Robert Bork e Clarence Thomas, mentre ha fatto parte in più occasioni della Commissione Affari Esteri, della quale è attualmente il presidente. In questo ruolo Biden ha avuto l’opportunità di conoscere a fondo le questioni internazionali e della sicurezza nazionale, nonché di venire a conoscenza di molti leader politici stranieri, tra cui proprio il presidente georgiano Mikheil Saakashvili, il cui invito lo ha portato a Tbilisi nello scorso fine settimana per discutere della crisi in atto con la Russia.

La presenza di Biden nel ticket democratico ha peraltro incontrato le immediate reazioni critiche da parte repubblicana. Oltre ad essere un veterano degli ambienti di Washington, il senatore del Delaware che ha perso la prima moglie e una figlia in un incidente stradale poco dopo il suo ingresso in politica ed è stato vittima di un aneurisma nel 1988 è anche famoso per aver spesso rilasciato dichiarazioni delle quali ha dovuto poi rammaricarsi in seguito. Proprio nei confronti di Obama infatti fece un commento lo scorso anno che suonò vagamente razzista e, in un dibattito alla vigilia delle primarie alle quali lo stesso Biden ha preso parte per un brevissimo periodo, mise in dubbio la preparazione del senatore dell’Illinois a guidare il paese. La corsa alla nomination democratica di Biden si è chiusa ai primi di gennaio di quest’anno all’indomani del modesto quinto posto ottenuto nei caucuses dell’Iowa, mentre il suo primo tentativo del 1988 finì tra le accuse di aver plagiato un discorso del leader del Partito Laburista britannico Neil Kinnock.

Gli scambi di accuse e colpi bassi tra candidati dello stesso partito durante le primarie sono d’altra parte una pratica consolidata nella politica statunitense. E prassi altrettanto corrente è anche il mettere da parte i dissapori e le antipatie fiorite nella prima fase della campagna elettorale per unire il proprio partito in vista dell’Election Day. Basti pensare al tormentato rapporto tra John Kennedy e Lyndon Johnson. Lo stesso John McCain inoltre, messo nelle condizioni di non potersi permettere una decisione troppo rischiosa riguardo al suo vice dopo quella così solida operata da Obama, non ha avuto certo un rapporto privo di conflitti durante le primarie con il presunto favorito alla seconda posizione del ticket repubblicano, l’ex governatore del Massachusetts, nonché miliardario mormone, Mitt Romney.

Qualche problema potrebbe causare ad Obama invece l’iniziale appoggio dato da Joseph Biden all’invasione dell’Iraq. Contrario alla prima Guerra del Golfo del 1991, Biden lavorò nel 2002 ad una risoluzione che intendeva rimuovere le presunte armi di distruzione di massa possedute dall’Iraq senza autorizzare però il rovesciamento di Saddam Hussein. Quando la sua proposta fallì, Biden decise di votare a favore della guerra, mentre Obama si oppose fermamente. Da allora tuttavia il neo candidato alla vice-presidenza democratica è diventato una delle voci più critiche della strategia irachena portata avanti dall’amministrazione Bush ed un sostenitore di un piano volto a suddividere il paese mediorientale in tre regioni semiautonome, a maggioranza shiita, sunnita e curda, sul modello della soluzione adottata per la Bosnia negli anni Novanta.

Con il tramonto delle ipotesi Sebelius, Bayh e soprattutto Kaine, nei confronti dei quali indubbiamente Obama sembrava avere un maggior feeling, anche per motivi anagrafici per lo meno nei confronti degli ultimi due, la scelta di Biden è stata accostata per certi versi a quella operata otto anni fa da George W. Bush quando optò per Dick Cheney. A causa della sua età infatti Biden, in caso di successo e permanenza alla Casa Bianca di Obama per i prossimi due mandati, non potrebbe ovviamente ambire ad una futura corsa alla presidenza così da evitare non poche complicazioni di carattere politico nei rapporti con quest’ultimo, come è invece spesso accaduto tra il presidente e il vice-presidente in passato, da ultimo proprio tra Bill Clinton e Al Gore. L’esperienza accumulata da Biden inoltre potrebbe fornire un importante aiuto ad un’eventuale nuova amministrazione democratica per districarsi tra i complicati rapporti istituzionali tra Casa Bianca e Congresso, abilità di cui Obama è indubbiamente carente vista la sua breve permanenza al Senato.

Anche se l’economia americana in difficoltà rimane la questione più sentita dagli elettori americani, le vicende internazionali delle ultime settimane hanno riportato alla ribalta la questione del “commander-in-chief test” per i candidati alla presidenza, il possesso o meno cioè delle capacità e dell’esperienza necessarie per guidare in maniera ferma il paese in un periodo di crisi. Un tema sul quale McCain ha puntato gran parte delle speranze di successo a novembre e che gli ha permesso, assieme ad una campagna fattasi sempre più aggressiva nei confronti del rivale e agli oggettivi e indubbi punti deboli di quest’ultimo, di risalire la china nei sondaggi ingaggiando un testa a testa che animerà i prossimi due mesi del dibattito politico americano. In questo contesto la scelta dell’“insider” di Washington Biden è volta appunto a stoppare gli attacchi che già da tempo il candidato repubblicano e il suo partito stanno indirizzando verso Obama, anche se il prezzo da pagare è inevitabilmente la rinuncia almeno parziale all’immagine di uomo nuovo destinato a portare un cambiamento radicale nella politica americana.

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