di Carlo Benedetti

MOSCA. E’ il momento dei bilanci e il Cremlino chiama a raccolta diplomatici, politologi, politici e, soprattutto, esponenti dello Stato maggiore dell’armata. L’esame è a tutto campo e riguarda - con una concatenazione di eventi - il conflitto con Tbilisi (sin dal primo momento dell’aggressione all’Ossezia del Sud), il velleitarismo occidentale e la reazione militare, diplomatica e politica russa. I primi risultati di queste analisi a caldo trovano spazio nella stampa centrale, nei dibattiti radiotelevisivi e nelle interviste che gli esponenti dell’aministrazione del Cremlino cominciano a rilasciare ai media locali. Così dietro le quinte dell’ufficialità e dell’orgoglio nazionale vengono avanti posizioni diverse nel quadro di una pur sempre complessa dinamica sociale. Si parla ampiamente delle “battaglie” e dei movimenti delle truppe e della reazione all’invasione georgiana. I militari forniscono le cifre - il numero dei carri armati impegnati, le ore di volo dei bombardieri e degli elicotteri, la quantità di bombe scaricate, i chilometri percorsi dai mezzi corazzati - ed è tutto un trionfo della macchina da guerra. Ma sono pochi quei militari che ammettono il valore della sorpresa attuata dai georgiani. I quali, con un vero colpo di mano, hanno preso Ksinvali e sono riusciti a far fuori i “colleghi” russi delle forze di pace. Gli accenti vengono posti sulla vastità delle operazioni di guerra e pochi sono quei militari che cercano di andare oltre al campo di battaglia. Eppure oltre agli scontri del momento c’è la guerra reale che non si combatte solo a colpi di cannone. Ed è questa “guerra” - si dice ora a Mosca - che è stata avviata, ma non è stata vinta.

Tutto questo fa dire ad alcuni politologi locali (primo fra tutti Vladimir Pastuchov il maggiore commentatore che interviene dalle colonne del settimanale moscovita Argumenti nedeli) che la tragedia dell’Ossezia entra nella storia come il primo conflitto militare tra la Russia e l’Occidente. Entra come una guerra non annunciata al pari di quelle che sconvolsero, a suo tempo, Corea, Vietnam, Angola e Afghanistan. E con una prosa asciuttisima i politologi che scendono ora in campo mandano a dire che da questa guerra attuale soffia il vento di un terzo conflitto mondiale. Idee e posizioni forti, forse anche avventate. Ma tutte comunque valide per un esame e una riflessione complessiva.

L’analisi di Mosca è a tutto campo. E solo ora ci si rende conto che dall’altra parte del fronte non c’era la Tbilisi di Saakasvili, ma l’America di Bush. E che la Cia, il Pentagono e la Casa Bianca non accetteranno mai di perdere un pezzo della “loro” Georgia, quell’Ossezia del Sud che è servita per scatenare l’incendio. Non solo, ma solo ora ci si ricorda che la terra caucasica è, per gli Usa, uno snodo fondamentale per il passaggio dei flussi energetici tra Mar Caspio e Turchia. Tutto questo porta i russi ad ulteriori e cruciali riflessioni, con domande del tipo: “Contro chi abbiamo combattuto e contro chi combattiamo?”, “Contro la Georgia che è nelle mani dell’Occidente e quindi degli Usa?”.

Le risposte che arrivano (e che trovano spazio apertamente nelle pagine dei quotidiani di queste ore) tendono a far rilevare che “la Russia è caduta in una palude dalla quale non c’è via d’uscita”. E coloro che scrivono queste analisi - anche a costo di andare controcorrente - aggiungono che per dialogare occorre ascoltarsi, che bisogna controbattere punto su punto, che non c’è nessun argomento proibito e che i “fatti” non vanno taciuti. Anche se gli alti gradi dell’esercito ribadiscono che “vanno strategicamente taciuti”.

In considerazione di tutto questo, alle domande sulle responsabilità di Mosca e di Tbilisi molti rispondono sostenendo che le responsabilità sono reciproche. E a ricordarlo c'è una situazione di fondo irrisolta, quella dei numerosi conflitti rimasti congelati nello spazio post-sovietico. Qui il diritto internazionale può essere utilizzato per dare ragione alla Georgia, all’Abchasia e all’Ossezia del Sud che fanno parte della repubblica georgiana in base a quella che era la divisione amministrativa nell'ex Unione Sovietica. Ed anche questo è vero. Tenendo anche conto che le leadership separatiste hanno approfittato della situazione creatasi dopo il 1991, godendo dell'appoggio russo e mantenendo una situazione di indipendenza de facto.

Ma tutto è avvenuto perchè in questi ultimi anni il Cremlino non ha valutato appieno i cambiamenti avvenuti nella politica dell’Occidente nei suoi confronti. E, forse, non si è reso pienamente conto che nel 2003 gli americani finanziarono la Rivoluzione delle Rose che portò al potere Saakasvili, subito attorniato da centinaia di "consiglieri" militari e politici americani. Tanto che Tbilisi ha cominciato a pensare di potersi prendere qualsiasi regione separatista: tipo, diciamo, l'Ossezia Meridionale. Ma in questa corsa all’annessione totale il leader caucasico si è dimenticato di alcune differenze, tipo il fatto che l'Ossezia Meridionale non è georgiana: confina con la Russia ed è legata all'Ossezia del Nord (etnicamente e storicamente) pur se con una debole linea di rifornimento attraverso il tunnel di Roki.

Ora con la guerra di questi giorni (che ancora mostra molte falle) la Russia si trova a fare i conti con un nuovo panorama geopolitico. Quello che evidenzia una condizione d’isolamento internazionale. Questa è la realtà pur se nello stesso tempo, le tante battaglie hanno permesso ai russi di dare una dimostrazione di forza, ribadire che sono una grande potenza “regionale” e che senza il loro accordo non possono essere alterati i confini o in generale gli equilibri attuali. Ma questo - si chiedono alcuni analisti di Mosca - può essere considerato come un rafforzamento delle posizioni e dell'influenza militare russa nella regione?

Anche in questo caso i russi sono obbligati a riflettere non sul passato, ma sul futuro. Sapendo in partenza, ad esempio, che quanto avvenuto a Tsinkvali (distruzioni e genocidio) non “arriva” nei media degli Usa e dell’Occidente. E così c’è anche chi prevede scenari ancora più tragici dal punto di vista geopolitico. Si nota, infatti, che Saakasvili è riuscito a far entrare “militarmente” la Russia in Georgia portandola a divenire un elemento del conflitto con il risultato (annunciato) che al posto dei soldati russi - truppe di pace o truppe di occupazione - arriveranno forze armate straniere. E tutto sarà così controllato dall’Occidente. Si avrà una situazione tipo-Kosovo. Il politologo Pastuchov, in merito, trae alcune conclusioni. Auspica una Russia che dovrà farsi accettare dalla Georgia così com’era: garante della sua indipendenza. Tutto questo perchè gli interessi di Mosca sono quelli di affermare e far valere la propria presenza nella regione, e con una conseguente posizione di garante sulle due repubbliche separatiste, l'Abkhazia e Ossezia del Sud.

Non tutto, però, é semplice e lineare. Perchè in tutta l'area post sovietica il mantenimento di uno status quo precario può degenerare prima o poi in nuovi scontri violenti e conflitti aperti. Serve una politica lungimirante. Pur se alla luce di quanto sta accadendo questa è forse una visione utopistica. E sull’arena geopolitica russo-caucasica piomba anche la posizione di una Romania preoccupata per gli avvenimenti su quella sponda orientale del mar Nero, sconvolta dal conflitto in Georgia. Sulla stampa romena si parla già dei rischi per la vicina Moldavia, del "precedente del Kosovo" e delle conseguenze sullo scacchiere regionale ed energetico. Tutto mentre il presidente di Bucarest Traian Basescu (che in passato non ha esitato ad accusare la Russia di voler trasformare il Mar Nero in “un lago russo”) il quale convoca i capi dei servizi segreti, il ministro della Difesa Teodor Melescanu e il ministro dell’Interno Cristian David. Si parla di aggiornare la strategia di sicurezza del paese, visto che la Romania si trova tra due zone di conflitto: Kosovo e Caucaso. Anche questa posizione che arriva dalla Romania suona come un campanello di allarme per i due dirigenti del Cremlino sempre più coinvolti in una concatenazione di eventi tra battaglie vinte sul terreno e guerre perse sul campo di una geopolitica futura.


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