di Eugenio Roscini Vitali

Le dimissioni del presidente Pervez Musharraf rappresentano l’atto finale di una disfatta personale e politica, la fine di un regime che ha generato lacerazioni sociali e paralisi istituzionale. Durante il suo ultimo discorso alla nazione, Musharraf è apparso avvilito e sconcertato; anziché rivolgersi ai pakistani sembrava parlare a se stesso, quasi fosse la vittima inconsapevole di una rapida successione di eventi che avevano consumato e determinato la sua morte politica. Di fronte alle telecamere ha cercato di trovare una giustificazione al suo fallimento: “Ancora una volta mi sacrifico per la patria, non ho fatto nulla per me e tutto per il paese”. Parole di circostanza che non hanno nascosto l’amarezza di una sconfitta annunciata; parole che lasciano in sospeso il futuro di un paese ostaggio della guerriglia, di un’economia in grave crisi, di una nazione incatenata da inimicizie interne, diatribe e settarismi, interessi privati e corruzione. Ma ora che il discusso e “benevolo” dittatore si accinge ad affrontare il dorato esilio di Jedda, che l’alleato della guerra americana al terrorismo ha deciso di farsi da parte, quali saranno le sorti del Pakistan? Per sette anni Musharraf ha governato tra critiche e approvazioni; ha cercato di convincere il mondo del fatto che in Pakistan l’esercito rimaneva l’ultimo baluardo contro l’instabilità e il caos; ha provato a far dimenticare il ruolo delle Forze Armate nella guerra civile del 1970, conflitto che coinvolse l’India e che portò alla sanguinosa perdita del Pakistan Orientale, poi proclamatosi indipendente con il nome di Bangladesh. Ha usato l’appoggio incondizionato dell’esercito per portare a termine il golpe del 1999; ha diretto il paese in modo neo-feudale e si è servito dei servizi segreti (Inter-Services Intelligence - ISI), di cui era stato il capo, per controllare, guidare e plasmare le istituzioni democratiche del paese; si è circondato di una piccola elite autocratica che si è impossessata dei posti chiave e si è opposta ad ogni aspirazione e ad ogni speranza della società civile e dei ceti medio-bassi.

Mentre consegnava i terroristi arabi agli americani, dava rifugio ai capi Talebani e permetteva che intere zone di confine cadessero sotto il controllo della guerriglia; alla pace con l’India contrapponeva la decisione di mettere nelle mani degli integralisti il ministero degli Affari religiosi e la supervisione delle scuole coraniche. Gli oppositori lo hanno accusato dei crimini più efferati e da grande accentratore non ha lesinato nell’usare il potere per controllare la giustizia e gli organi costituzionali. Nonostante questo, le sue dimissioni non hanno prodotto i risultati sperati; neanche dopo una settimana il Pakistan è stato colpito da nuova drammatica frattura politica e la maggioranza che ne ha determinato la fine politica si è spaccata.

Collante della nazione, sia nella buona che nella cattiva sorte, negli ultimi mesi Musharraf aveva perso qualsiasi appoggio: gli aveva voltato le spalle l’elettorato, le stesse donne alle quali aveva propagandato l’emancipazione, la società civile, i media, l’esercito e persino gli Stati Uniti, che non lo hanno mai ritenuto all’altezza di affrontare il difficile problema del terrorismo. In Pakistan l'annuncio delle sue dimissioni è stato accolto da entusiastici festeggiamenti; la gente è accorsa in strada per esprimere la sua felicità; in un solo giorno l’indice KSE-100 della borsa di Karachi salì del 4,5 per cento e sul mercato dei cambi la Rupia si rafforzò rapidamente, soprattutto nei confronti del dollaro Usa rispetto al quale era arrivata a perdere quasi un quarto del suo valore in meno di un anno.

Il Partito popolare pakistano (PPP) e Lega pakistana musulmana-Nawaz (PML-N), che con tanto ardore si erano opposti al Capo della Stato, si sono divise su due questioni di principio: la riammissione dei giudici della Corte suprema rimossi lo scorso anno da Musharraf e la scelta del candidato che dovrà correre per le presidenziali del prossimo 6 settembre. Guidata dal deposto primo ministro Nawaz Sharif, la PML-N è passata all'opposizione e Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto e leader del PPP, si è ritrovato solo a guidare un governo che, pur godendo della maggioranza relativa, non dispone più dei due terzi dei voti parlamentari necessari alla tanto auspicata modifica costituzionale. La comune avversione verso l’ex generale non è stata quindi sufficiente a mantenere unita una coalizione che in per molti versi è sempre sembrata innaturale; due forze politiche profondamente diverse che si sono combattute e che hanno condiviso un unico programma: abbattere il regime militare di Pervez Musharraf. Venuta meno ogni ragione per proseguire insieme il cammino, l’incertezza politica ha ripreso il sopravvento.

Ufficialmente la rottura si sta consumando intorno alla questione che riguarda la Corte suprema: mentre in vista delle elezioni Zardari cerca di guadagnare tempo, il leader della Lega musulmana non rinuncia alla battaglia contro la rimozione dei 60 giudici sospesi nel novembre scorso. Sharif accusa gli ex alleati di opporsi al reinserimento dei magistrati, cosa che sarebbe dovuto avvenire il giorno stesso delle dimissioni di Musharraf e che avrebbe dovuto includere lo stesso capo della Corte Suprema, Iftikhar Muhammad Chaudhry. In effetti Zardani, temendo che possa essere annullata l’amnistia concessagli lo scorso anno per un'accusa di appropriazione indebita, ha spinto il premier Yusuf Raza Gilani, suo compagno di partito, ad emanare un ordine esecutivo che prevede la “rinomina” di 60 giudici.

Sharif e l’influente movimento degli avvocati pakistani si sono subito opposti a questa decisione: l’operazione politica portata avanti dal PPP sarebbe del tutto incostituzionale in quanto prevede la nomina di nuovi giudici e non il ‘reinserimento’ di quelli sospesi. Lo scontro entra poi nel merito del ruolo del Capo dello Stato: al contrario di Zardari, Sharif vorrebbe fare del presidente una figura di rappresentanza alla quale togliere la maggior parte dei poteri, tra i quali quello di sciogliere il Parlamento.

Unitamente alle quattro assemblee provinciali, l’Assemblea Nazionale e il Senato si riuniranno il 6 settembre alle ore 10.00 (le 07.00 italiane) nell'aula del Parlamento di Islamabad per eleggere il nuovo presidente. La Commissione Elettorale ha ricevuto tre candidature: il capo del Partito popolare pakistano, Asif Ali Zardari; l'ex procuratore capo Saeeduz Zaman Siddiqui, che rappresenta la PML-N di Nawaz Sharif; l’ex giornalista e analista politico Mushahid Hussain, membro di spicco della Lega musulmana Quaid-i-Azzam (PML-Q), partito creato nel 2001 da Pervez Musharraf. Anche se i pronostici sono tutti dalla parte di Zardari, potrebbero esserci sorprese.

Per il Pakistan, Asif Ali Zardari non è certo quanto di meglio si possa desiderare. Dopo l’amnistia concessagli lo scorso anno, “Mr dieci per cento” (soprannome guadagnato sul campo grazie alle accuse di corruzione ed estorsione) sembra essersi ricostruito una candida verginità. Intorno alla sua reputazione non mancano comunque le polemiche e, per molti dei 160 milioni di pakistani, i dubbi rimangono: né colpevole, né innocente ma comunque responsabile di molti dei mali del Partito popolare. Quando si è unito alla dinastia Bhutto era il rampollo di una ricca famiglia di latifondisti della provincia del Sindh meridionale. Fino ad allora poco conosciuto, si è saputo rapidamente ritagliare una posizione di potere ed è riuscito a legare la figura di personaggio pubblico a uomo di governo. Condannato a tre anni di detenzione nel 1990, è stato nuovamente arrestato e giudicato colpevole nel 1996: 17 casi di corruzione, contrabbando di stupefacenti e omicidio, accuse che Zardari ha sempre rimandato al mittente definendosi una vittima dei poteri forti e della politica.

Ora che la corsa alla presidenza inizia a fasi serrata, i colpi bassi non mancano. Secondo il britannico Financial Times, il marito dell’ex premier Bhutto soffrirebbe di seri problemi psichiatrici. La notizia, pubblicata il 25 agosto scorso in un artico intitolato “Battle scars on show as Zardari in spotlight”, parla di una serie di documenti legali nei quali sarebbero state diagnosticate diverse malattie quali demenza, depressione e disordine da stress post- traumatico. I problemi deriverebbero dal lungo periodo passato in detenzione, 11 degli ultimi 20 anni; condannato per corruzione, Zardari sarebbe stato sottoposto a torture e violenze psicologiche che, secondo lo psicologo newyorchese Stephen Reich, avrebbero provocato instabilità emotiva, problemi di memoria e inclinazione al suicidio.

Secondo l’entourage del PPP le accuse sarebbero infondate, in quanto Zardari sarebbe stato costretto ad usare queste diagnosi al solo scopo di evitare un nuovo processo per corruzione, dibattimento che si sarebbe dovuto svolgere presso l'Alta corte di Londra e che sarebbe poi decaduto in seguito all’amnistia che gli è stata concessa lo scorso anno dalla Corte di giustizia pakistana. Tuttavia, nonostante nuovi esami abbiano dichiarato che il leader del PPP è in piena salute ed è adatto a ricoprire qualsiasi ruolo pubblico, il precedente giudizio dei medici pone il paese e il mondo intero di fronte ad un serio problema: se Zardari fosse eletto e le affermazioni di Raich fossero confermate, il nuovo presidente del Pakistan sarebbe un uomo con gravi turbe psichiche. Con una bomba atomica tra le mani.

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