di Carlo Benedetti

MOSCA. Mentre l’attenzione è rivolta ad un’altra regione del Caucaso, quella georgiana dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, la Cecenia si ripresenta alla ribalta della Russia. Si torna a parlare – in questa polveriera millenaria - delle lotte dei clan, del conflitto con il Cremlino e della resa dei conti che agita sempre le questioni locali. E si “scopre” che la guerra tra Mosca e Tbilisi sull’Ossezia del Sud e l’Abkhazia ripropone con forza la questione delle frontiere e, ancor più, il problema della coabitazione di una grande varietà di popoli e di minoranze etniche, linguistiche e religiose. Ma c’è soprattutto – in questa conflagrazione generale - un fatto che è ancor più pericoloso e tragico. Ed è che il Cremlino - ieri di Putin, oggi di Medvedev – mostra di non aver capito che nel Caucaso c’è una eterogeneità e complessità di popolazioni. Perchè accanto ai tre popoli dominanti - georgiani, armeni e azeri - coesistono nazionalità e minoranze che superano il centinaio come adighei, abkhazi, cabardini, circassi, caratini, ceceni, ingusci, psciavi, nogai, talisci, curdi yazidi, assiri, osseti, calmucchi, tatari, agiari, baschiri, lazi, svani, khevsuri, tati ecc. Una vera “polveriera” dove, tra l’altro, convivono scosse e convulsioni politiche, ripicche familiari, rese dei conti, lotte per l’egemonia. Ed ecco gli ultimi fatti. Tutto ricomincia a Mosca dove Sulim Yamadayev (47 anni) ex comandante del battaglione ceceno “Vostok” ed ex deputato della Cecenia, viene ucciso in un agguato il 24 settembre scorso. Sembrerebbe uno dei tanti e semplici delitti politici in una realtà caratterizzata da un banditismo che coinvolge il lontano Caucaso e la capitale russa. Ma non è così. Yamadaev è in una Mercedes blindata e sta percorrendo il “Lungofiume Smolensk”, quasi accanto al palazzo del governo. Sono le 17,15 quando da una “Audi-80” vengono esplosi alcuni colpi che raggiungono la Mercedes. Yamadayev muore all’istante. Resta gravemente ferito il generale Sergej Kisiun - uno dei comandanti militari in Cecenia - che era con lui.

Prendono il via le indagini, ma subito si ripercorrono le vicende “politiche” e i rapporti tra Mosca e la capitale cecena Grozny; soprattutto si analizzano le relazioni tra Putin e il clan Yamadayev che è composto, al vertice, da cinque fratelli. A tre di loro, Sulim in primis, l’allora presidente russo aveva concesso alte onorificenze (le medaglie di “Eroe della Russia”) con l’evidente obiettivo di avere dalla sua parte – mosso da considerazioni di potenza e di strategia - personaggi influenti nelle tante realtà caucasiche. Putin non ha infatti dimenticato che durante la seconda guerra cecena del 1999, gli uomini di Yamadayev (conosciuti come “jamadaevzi” e riuniti in un battaglione denominato “Vostok”) avevano aiutato l’armata russa ad occupare la città di Gudermes senza sparare un colpo. Putin, allora, sapeva bene dei legami tra i “guerriglieri” ceceni e le unità militari del Gru, l’intelligence del ministero della Difesa. Ed è così che comincia la carriera dei due Yamadayev: Sulim diviene comandante del “Vostok” e Ruslam entra nella Duma.

Ma la situazione non è normalizzata. E Putin, che deve conoscere bene le vicende del palazzo ceceno, si illude di mettere a tacere le antiche rivalità. Finge di dimenticare che in Cecenia solo un clan – quello degli Yamadayev – è in grado di opporsi al presidente Ramzan Kadyrov il quale, nel frattempo, ha trovato appoggio in altre formazioni della guerriglia. E così Putin, pur se esperto uomo dell’intelligence, cade nella trappola cecena. Non si accorge che per amministrare il Caucaso, è necessario “parlare” oltre cento lingue senza urtare la sensibilità dei clan che sono le vere classi dirigenti locali. Soprattutto, sottovaluta il fatto che tra il presidente di Grozny e gli Yamadayev è sempre lotta.

E così arriva il giorno della vendetta. Il luogo dell’attentato è estremamente significativo, a pochi passi dal palazzone del potere, quella Casa Bianca che nella capitale russa si affaccia sulla riva della Moscova. Un luogo super controllato dagli agenti della sicurezza che hanno trasformato l’intera area in una sorta di caserma a cielo aperto. Seguono Putin e le auto nere che vanno e vengono dalla sede governativa. Ma l’auto di Sulim sfugge casualmente a questi controlli difensivi. Una modestissima “Audi” (subito destinata a scomparire) si avvicina alla “Mercedes” del boss ceceno. E la Skorpion fa il resto.

Resa dei conti tutta cecena, quindi? Forse. Ma ci sono anche altre versioni da mettere nel conto. C’è quella che viene avanzata dal deputato della Duma, Aleksandr Troscin, il quale ricorda che il 10 agosto scorso il gruppo “Vostok” degli Yamadaev venne mandato a combattere per difendere l’Ossezia del Sud. E così prende corpo la tesi di una “vendetta” di Tbilisi. Ancora una volta il Cremlino si trova a fare i conti con la realtà cecena. E questa volta, secondo il parlamentare russo, entrerebbero in gioco gli stessi georgiani. Saakasvili all’attacco? L’intelligence russa, ancora una volta, non sembra reagire. Comunque è avvertita. Ma non è detto che sia in grado di rispondere, perché tanti sono i buchi neri dove si nascondono le faide più impreviste.

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