di Mario Braconi

Crescita della disoccupazione, inasprimento della sperequazione economica, esplosione del debito pubblico e del deficit della bilancia commerciale: dopo sette anni di Bush, l’economia americana è in grave difficoltà. Quando i repubblicani sbandierano la crescita del prodotto interno lordo durante i due mandati Bush, dimenticano che tale crescita è stata causata dalla politica monetaria espansiva e dalla bolla immobiliare (che peraltro il governo non ha tenuto sotto controllo come avrebbe dovuto fare). Quando Bush è stato eletto, nel gennaio del 2001, ha ereditato un avanzo di bilancio di oltre il 2% del PIL; dopo i primi quattro anni di governo, grazie alle guerre per il petrolio e a due ondate di tagli fiscali inutili quanto iniqui, il surplus si è volatilizzato, sostituito da un disavanzo del 3,6%. Per quanto riguarda le avventure belliche americane, l’unica “sicurezza” per il Paese è il gran numero di vite americane perse in Afghanistan e in Iraq (oltre 4.000); molto difficile invece sapere quanto la guerra costerà in termini monetari. In un suo recente lavoro, il premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, sostiene che i suoi costi a medio termine potrebbero aggirarsi attorno ai 4.000 miliardi di dollari, mentre il Congressional Budget Office, istituzione bipartisan che elabora statistiche economiche per Congresso, attesta le sue stime su un importo sensibilmente inferiore, tra i mille e i duemila miliardi. In ogni caso, le guerre di Bush sono state (anche) una voragine che ha inghiottito una somma enorme (e attualmente ignota) di denaro pubblico; è perfino superfluo aggiungere che tali risorse avrebbero potuto essere più utilmente impiegate per arginare le disuguaglianze tra ricchi e poveri che, pur endemiche negli Stati Uniti, sono state tuttavia aggravate in modo lucido e pervicace dalle più recenti amministrazioni repubblicane.

A questo proposito, basta scorrere il rapporto “Reddito, Povertà e tasso di copertura assicurativa nel 2007” che lo United States Census Bureau (l’ISTAT americana) ha pubblicato ad agosto: nel periodo di osservazione (2000 - 2007) il numero di americani sotto la soglia di povertà è aumentato di oltre 5 milioni di unità; i bambini poveri sono il 18% in più; i cittadini privi di assicurazione sanitaria (cioè di fatto privi di cure di qualità) sono passati dai 39 milioni circa del 2000 ai quasi 46 milioni del 2007; infine, il reddito di un trentenne nel 2007, aggiustato con gli effetti dell’inflazione, è inferiore del 12% a quello che guadagnava suo padre trenta anni prima. Più che dati USA, sembrano statistiche di una qualche staterello africano vessato da un despota corrotto.

Quando Bush ha iniziato il suo primo mandato (gennaio 2001) il debito pubblico USA era di circa 5.700 miliardi di dollari; oggi ha raggiunto i 10.500 miliardi di dollari. Merito, anche, dei due provvedimenti di taglio delle imposte, varati dall’amministrazione Bush con il chiaro intento di favorire gli americani più ricchi. In un fulminante editoriale pubblicato sul New York Times, il Nobel Paul Krugman ha dimostrato che il primo pacchetto di “stimolo” fiscale non ha di fatto stimolato un bel niente: il tasso di partecipazione alla forza lavoro, infatti, ha continuato a scendere, del tutto indifferente ai tagli. Per quanto riguarda la seconda ondata di tagli fiscali (2003), benché ancora oggi i sostenitori di Bush tentino di stabilire una relazione causa-effetto tra la riduzione delle imposte e la maggior crescita del prodotto interno lordo registrata nel 2004 (+3,6%), esso è stato frutto di una politica monetaria espansiva, con tassi nominali all’1% e reali al -2%.

Anche se non sono serviti a far crescere l’economia, per una minoranza di ricconi i tagli fiscali si sono rivelati un buon affare: più del 40% del loro ammontare è stato distribuito infatti a chi aveva un reddito superiore ai 300.000 dollari, mentre oltre 50 milioni di Americani non ne hanno ricavato alcun beneficio. Se i tagli, attualmente temporanei, dovessero essere resi stabili (come vorrebbe Mc Cain), il risparmio per un cittadino americano povero non arriverebbe ai 50 dollari, mentre chi ogni anno guadagna più di un milione potrebbe arrivare a risparmiare oltre 160.000 dollari di imposte.

Come nota Stiglitz con elegante sintesi, “la politica fiscale irresponsabile di Bush ha finito per causare una diffusa irresponsabilità nei cittadini”. Che infatti cominciarono a fare ricorso massiccio al debito, “approfittando” delle “opportunità” che il sistema concedeva a chi desiderasse vivere al di sopra delle proprie possibilità. Si pensi alle offerte sulle carte di credito (un’esposizione che a settembre del 2007 era stimata attorno ai 900 miliardi di dollari) e ai mutui “per tutti” con tassi iniziali sotto il mercato. Il quadro è completato dalla bolla immobiliare, che ha gonfiato il prodotto interno lordo contribuendo ad un ulteriore aumento di indebitamento delle famiglie americane. La mancanza di una vera regolamentazione dei prodotti finanziari costruiti a partire dai mutui, in particolare a quelli di bassa qualità (o subprime), infine, è stata la condizione che ha consentito l’esplosione della crisi finanziaria che sta conducendo gli USA e il mondo intero verso una recessione tra le più drammatiche della storia.

Oggi la gran parte del debito pubblico americano è nelle mani di paesi esteri; la Cina ed il Giappone, ad esempio, detengono, assieme oltre mille miliardi di dollari dei titoli di stato americani. Il che rende vulnerabili il Paese e anche l’economia globale: pensiamo a che cosa avverrebbe se improvvisamene uno di questi paesi decidesse di non comprare più titoli di stato americani: rialzo dei tassi USA e crollo del dollaro, tanto per iniziare. Per fortuna, la Cina sembra avere l’interesse opposto: compra titoli di stato USA per mantenere artificialmente basso il cambio tra YUAN e dollaro (cosa che, peraltro, contribuisce ad alimentare il fantasmagorico deficit commerciale americano verso il resto del mondo: oltre 700 miliardi di USD, pari a circa il 5% del PIL).

Così il Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, in un brillante pezzo pubblicato su Vanity Fair: “Fino ad oggi secondo la saggezza popolare lo scettro del peggior presidente della storia Americana, quanto a gestione dell’economia, spettava a Herbert Hoover, le cui politiche aggravarono gli effetti della Grande Depressione. Con l’avvento di Roosevelt e il relativo mutamento della politica economica, il Paese cominciò a riprendersi. Ma gli effetti economici della presidenza Bush sono molto più insidiosi di quelli delle politiche di Hoover, più difficili da contrastare e, con ogni probabilità, più durevoli”.

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