di Michele Paris

L’America ha cambiato pagina. Spazzando via tutte le paure che avevano pervaso il campo democratico negli ultimi giorni per un possibile ripetersi dell’incubo del 2000 e del 2004, Barack Hussein Obama ha conquistato una vittoria molto netta diventando il 44esimo presidente degli Stati Uniti, il primo di colore nella storia di questo paese. La notte elettorale dall’altra parte dell’Oceano ha segnato contemporaneamente il rifiuto finale di un presidente profondamente impopolare e della gestione repubblicana del potere che ha condotto l’America sull’orlo di una crisi economica senza precedenti nell’ultimo mezzo secolo e ad un ridimensionamento del proprio ruolo internazionale. Pesantemente condizionato dall’eredità di George W. Bush, nonché dai suoi stessi errori commessi in una lunghissima campagna elettorale, John McCain ha finito per soccombere di fronte al 47enne senatore dell’Illinois al suo primo mandato al Congresso. A nulla sono serviti gli sforzi dello staff del candidato repubblicano per portare nella propria colonna quegli stati che - come la Pennsylvania e il New Hampshire - avevano premiato i democratici quattro anni fa. Costretto a giocare sulla difensiva, McCain ha visto ben presto svanire anche le speranze di confermare gli stati ricchi di delegati come Ohio e Florida che erano risultati decisivi nella rielezione di Bush. I primi segnali positivi per Obama erano giunti con l’assegnazione dei 21 voti elettorali della Pennsylvania, il “blue state” cioè che i repubblicani avevano sperato fino all’ultimo di strappare al rivale investendo enormi risorse e facendo leva sulle sue difficoltà nei confronti di quella working-class che nelle primarie aveva premiato Hillary Clinton. In questo Stato il senatore dell’Illinois era stato infatti battuto nella competizione interna al partito lo scorso mese di aprile per quasi 10 punti percentuali. Ora invece quello stesso margine di distacco lo ha inflitto al rivale repubblicano, incassando la maggioranza degli elettori compresi in tutte le fasce di reddito al di sotto dei 100.000 dollari.

Identica tendenza si è riscontrata poi nell’Ohio (20 voti elettorali), lo Stato vinto in maniera decisiva da Bush nel 2004 e sul quale si erano concentrati gran parte degli sforzi di McCain e di Sarah Palin per cercare di mettere a segno una clamorosa rimonta che avrebbe finito per ribaltare le centinaia di sondaggi snocciolati nelle ultime settimane. La soglia di consenso relativamente al reddito degli elettori è apparsa più bassa invece in un altro stato chiave - la Florida (27 voti elettorali) - dove Obama ha prevalso tra le famiglie al di sotto dei 50.000 dollari annui. Una dinamica molto differente in ogni caso rispetto a quattro anni fa e fortemente caratterizzata dalle ansie suscitate tra i ceti più bassi dalla crisi economica in corso negli USA.

Ancora più significative sono apparse poi le vittorie incassate dal senatore afroamericano in Virginia, Indiana e North Carolina. Nei primi due stati, l’ultimo candidato democratico a prevalere in un’elezione presidenziale era stato Lyndon Johnson, nel 1964, mentre nell’ultimo Jimmy Carter nel 1976. Le incursioni di Obama nel sud degli Stati Uniti sono state in parte determinate dalle variazioni demografiche che hanno trasformato Virginia e North Carolina – negli ultimi anni meta di un consistente afflusso di laureati e giovani professionisti provenienti dai confinanti stati confinanti a nord e di immigrati di ogni provenienza, in stati più simili a quelli nord-orientali affacciati sull’Atlantico rispetto a quelli meridionali. L’affermazione di un afroamericano qui rappresenta tuttavia anche una vittoria almeno simbolica a distanza di oltre quarant’anni degli sforzi proprio del presidente Johnson che nel 1964 firmando il Civil Rights Act - anticipato l’anno prima da un celebre discorso di John Kennedy - accettò di concedere gli stati del sud al Partito Repubblicano.

La rivoluzione prodotta nella mappa elettorale delle presidenziali dall’elezione di Obama - i cui effetti nell’immediato futuro saranno tutti da verificare - non ha tralasciato nemmeno alcuni stati del sud-ovest, a loro volta più o meno solidamente repubblicani negli ultimi decenni. Il passaggio nella colonna democratica di Nevada (5 voti elettorali), Nuovo Messico (5) e Colorado (9) è avvenuto in gran parte grazie al massiccio appoggio ottenuto dal nuovo presidente da una comunità ispanica - 78% in Nevada, 69% in Nuovo Messico e 73% in Colorado - dapprima ben disposta ad accogliere le istanze riformiste di McCain e il suo conservatorismo sui temi sociali, al quale ha però voltato le spalle dopo che quest’ultimo aveva finito per abbracciare la linea dura del proprio partito sul tema dell’immigrazione clandestina. Da queste parti tuttavia Obama ha beneficiato dei cambiamenti di orientamento politico all’interno di molte comunità che ospitano oggi numerosi immigrati di recente dalla costa occidentale, ma anche della strategia che il Partito Democratico ha messo in campo negli ultimi anni riconquistando una solida base di appoggio grazie alla presentazione di candidati agli uffici pubblici di orientamento più moderato.

Non è naturalmente un caso che due degli stati tra quelli coinvolti maggiormente nella crisi dei mutui - Florida e Nevada - si siano trasformati da “red states” a “blue states” nell’arco di quattro anni, così come ha fatto l’Ohio, uno degli stati più gravemente colpiti dalla ristrutturazione economica prima e dalla recessione poi. Limitare però al solo precipitare della crisi economica il successo di Obama significherebbe non cogliere la portata storica della sua folgorante apparizione sulla scena politica statunitense. John McCain, il “maverick” per eccellenza, il repubblicano atipico amato dagli indipendenti ha finito infatti per raccogliere solo 40% delle preferenze tra quest’ultimo gruppo elettorale; mentre il dato ancora più significativo per comprendere quanto la voglia di cambiamento sia stata il vero motore di questa elezione è il misero 30% ottenuto dal 72enne senatore dell’Arizona tra i giovani. Un numero che impallidisce non solo nei confronti del travolgente supporto fornito da essi a Obama, ma anche rispetto a quanto aveva fatto George W. Bush nel 2004 tra le giovani generazioni (45%).

Se a questi numeri si aggiunge il 95% dei voti degli afroamericani - la cui affluenza non è mai stata così alta come quest’anno - e oltre il 50% di quello delle donne, la coalizione che ha permesso a Obama di trionfare è così delineata nella sua completezza. A dispetto poi dei timori per il funesto manifestarsi del cosiddetto “Bradley effect” - la teoria per la quale una parte di votanti bianchi tende a dichiarare nei sondaggi la propria incertezza o la volontà di votare per un candidato di colore, mentre nel segreto dell’urna finisce per scegliere il candidato bianco - il candidato democratico ha anche fatto registrare una performance migliore tra l’elettorato bianco rispetto ai candidati bianchi che avevano perso le ultime due tornate elettorali. Al Gore e John Kerry erano stati infatti in grado di portare a casa rispettivamente il 42% e il 41% di questa fetta di elettorato nel 2000 e nel 2004, mentre Obama si attestato quest’anno al 43%. Più dei pregiudizi razziali insomma ha potuto la paura per le conseguenze della crisi economica e la necessità di scegliere il candidato con la ricetta più efficace, al di là del colore della sua pelle.

A fronte di un movimento proiettato verso il futuro e verso le nuove sfide che la prima democrazia occidentale sarà chiamata ad affrontare con un atteggiamento diametralmente opposto da quello adottato dall’amministrazione uscente, il panorama politico americano dovrà fare i conti con una minoranza repubblicana che in questo momento appare sempre più ripiegata su se stessa e in cerca di rifugio nelle forze più reazionarie ed anti-intellettuali del paese, perfettamente rappresentate dal fenomeno Palin. Una situazione evidente al Congresso - oltre alle presidenziali infatti si è votato anche per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti e di un terzo dei membri del Senato - dove molti dei deputati e senatori repubblicani sconfitti risultano essere anche quelli relativamente più moderati, mentre parecchi conservatori sono riusciti a mantenere il proprio seggio. Per la prima volta dal 1995 in ogni caso, il partito dell’Asinello potrà controllare ora contemporaneamente la Casa Bianca e i due rami del Congresso, nonostante sia fallito il tentativo di raggiungere la soglia dei 60 senatori necessari per evitare l’ostruzionismo dell’opposizione.

Nella sua lunga corsa alla Casa Bianca, Barack Obama ha frantumato ogni record di raccolta fondi, suscitando però polemiche e l’accusa di aver messo la parola fine sul sistema del finanziamento pubblico, al quale aveva rinunciato lo scorso mese di giugno. Grazie anche alla capacità di costruire una sterminata rete di donatori, soprattutto tramite il web, il senatore afroamericano ha messo assieme oltre 600 milioni di dollari e la sua spesa complessiva in quasi due anni di campagna - considerando anche la somma sborsata in suo favore dal Comitato Nazionale Democratico - ha sfiorato i 750 milioni. La supremazia dal punto di vista finanziario gli ha permesso così di costruire una formidabile struttura organizzativa praticamente in ognuno dei 50 stati dell’Unione, un elemento alla fine decisivo per la sua vittoria, assieme naturalmente alla capacità di fare appello a buona parte dell’elettorato bianco.

Il primo candidato democratico in grado di superare la soglia del 50% nel voto popolare (52%) dal 1976, quando ci riuscì Jimmy Carter (50,1%), il quale però aveva raccolto poco meno di 41 milioni di voti complessivamente contro gli oltre 62 milioni del prossimo inquilino della Casa Bianca, Obama a 47 anni è anche il quinto più giovane presidente nella storia degli Stati Uniti a conquistare la presidenza dopo Theodore Roosevelt nel 1901(43), John Kennedy nel 1960 (43), Bill Clinton nel 1992 (46) e Ulysses S. Grant nel 1869 (46).

Buone notizie complessivamente sono giunte infine per i democratici anche dagli undici stati che mettevano in gioco le poltrone dei rispettivi governatori. La vittoria più significativa delle sette conquistate dal Partito Democratico è arrivata dal Missouri dove il governatore uscente - il repubblicano Matt Blunt - aveva deciso di non ripresentarsi. Il suo collega di partito, Kenny Hulshof, ha finito così per cedere al democratico Jay Nixon - ex procuratore generale dello stato - con un margine di ben 19 punti percentuali. Il bilancio nazionale vede ora i democratici occupare 29 poltrone di governatore contro le 21 dei repubblicani.

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