di Luca Mazzucato

NEW YORK. La prima conferenza stampa di Barack Obama come presidente eletto è stata un enorme sollievo per la maggior parte degli americani, anche solo per il semplice fatto di non vedere Dick Cheney in seconda fila dietro il presidente, né fare capolino tra i drappeggi delle tende. Insomma, “in America il cambiamento è arrivato.” Obama ha riassunto con chiarezza i capisaldi del suo programma per i primi cento giorni, tutti centrati sull'economia: uscire dalla crisi del credito, aiutare le famiglie in difficoltà e stimolare la creazione di posti di lavoro con il taglio delle tasse per la classe media. Vediamo di cosa si tratta e quali sono le prime nomine della futura amministrazione democratica. Conan O'Brien su NBC ha riassunto egregiamente la situazione del paese: “Il presidente eletto ha detto che l'America avrà successo se riusciremo a superare settarismo e interessi di parte. In altre parole, siamo spacciati.” La diagnosi per l'economia americana è molto grave: per il decimo mese consecutivo la disoccupazione continua ad aumentare, un milione duecentomila posti di lavoro sono stati persi nell'ultimo anno. La cura che Obama propone sembra discostarsi dal solito ritornello liberista a cui decenni di reaganismo ci avevano abituati. Le misure nel breve termine sono mirate non all'ambiente finanziario ma alla classe media. Non potrebbe d'altra parte essere altrimenti, dato il recente piano di “bail out” di un trilione di dollari approvato dal Congresso per ridare fiducia ai mercati, che peraltro non ha ancora dato alcun frutto ed è furiosamente impopolare. “La priorità urgente - afferma il presidente eletto - è l'estensione delle tutele sociali per quei lavoratori che non riescono a trovare un nuovo lavoro nel mezzo della crisi.” Allo stesso tempo, “non si può più posticipare un piano di stimolo fiscale che faccia ripartire l'economia.”

Il carattere complessivo di questi interventi sembra di carattere keynesiano, ma invece che di “economia di guerra” neo-con, si parla di ridistribuire la ricchezza. Obama in questi giorni ha più volte sottolineato che per far ripartire l'economia dal basso è necessario aumentare la ricchezza della classe media e creare nuovi posti di lavoro: la prosperità seguirà a ruota. Una grossa novità nel discorso politico, visto che negli ultimi trent'anni il “leit motiv” è sempre stato “tagliare le tasse alle imprese, tanto poi la ricchezza si spande verso il basso.”

Uno degli argomenti più originali (e controversi) del programma di Obama è la sua proposta di “new deal verde”, cioè un'invervento massiccio del governo federale per dare una spinta alla ricerca e all'utilizzo delle tecnologie pulite. Nelle sue stime più rosee, il presidente eletto punta su questo piano per creare cinque milioni di posti di lavoro nei prossimi anni e ricostruire la disastrata economia americana. Il gioco vale la candela, dato la positiva ricaduta ambientale. Ma come sempre, “il diavolo sta nei dettagli.” Obama intende poi “affrontare l'impatto crescente della crisi finanziaria sulle piccole imprese in difficoltà con i pagamenti e sui governi locali che stanno affrontando tagli devastanti.”

La risposta è un piano di stimolo fiscale, questa volta per le imprese con redditi sotto i duecentocinquantamila dollari. Anche l'industria dell'auto è in crisi (si parla di grosse fusioni e di marchi vicini alla bancarotta). La proposta di Obama, su cui sta già lavorando, è di “produrre auto a basso consumo negli Stati Uniti.” Oltre al positivo impatto ambientale, verrà così “ridotta la dipendenza sul petrolio straniero” e allo stesso tempo verrano riportati in America milioni di posti di lavoro che la globalizzazione al ribasso ha da tempo trasferito oltreoceano.

Per mettere in atto questo programma, Obama sta in questi giorni dando forma e sostanza alla nuova amministrazione democratica, la prima nella storia americana ad essere guidata da un “liberal” della East Coast. La prima e più importante nomina è quella di Rahm Emanuel a Capo di Gabinetto, ovvero l'uomo che vivrà in simbiosi col Presidente e sarà responsabile di mettere in pratica le sue decisioni sul campo. È certamente suggestivo l'accostamento del secondo nome di Rahm Israel Emanuel con quello di Barack Hussein Obama.

Emanuel, figlio d’immigrati israeliani e vecchio amico di Obama, è considerato a Washington una “macchina da guerra” per via della sua conoscenza dei meandri del sistema, dei suoi contatti a tutto campo in entrambi gli schieramenti e soprattutto per il suo feroce pragmatismo. È ricordato ad esempio per aver recapitato una testa di pesce mozzata ad un sondaggista ed altri innumerevoli aneddoti, che gli hanno valso il soprannome di “Rahm-bo”. Emanuel è stato uno dei factotum dell'amministrazione Clinton e ha partecipato alla stesura degli accordi di Oslo nel 1993. Molti progressisti guardano con diffidenza alla scelta di Emanuel, per via del suo supporto incondizionato per Israele e dei suoi record di raccolta fondi tra gli hedge funds.

La sua nomina ha peraltro scaldato gli animi in Medioriente: accoglienza entusiasta in Israele, ma grande delusione tra i palestinesi. D'altra parte, Emanuel è noto per portare a termine le sfide più difficili, che altri preferiscono scaricare: come ribattere al fango repubblicano durante l'impeachmente al presidente Clinton o riportare al Congresso la maggioranza democratica nel 2006. Forse proprio questa tenacia è l'aspetto cruciale per capire la nomina a Capo di Gabinetto, date le enormi difficoltà che la nuova amministrazione dovrà affrontare.

La nomina di David Axelrod, (intimo amico di Obama ed Emanuel) a Consigliere politico delle Casa Bianca è l'ovvio riconoscimento del ruolo dello stratega politico della campagna elettorale, che ha portato alla schiacciante vittoria. Insomma, quello che il famigerato Karl Rove è stato per Bush. Lo stesso si può dire della nomina del portavoce di Obama, Robert Gibbs, come responsabile dell'ufficio stampa della Casa Bianca. Infine la “squadra della transizione”, che dovrà occuparsi del trasferimento di poteri da Bush ad Obama da qui al 20 Gennaio, rappresenta un massiccio esodo di esponenti democratici di Chicago, roccaforte storica dei progressisti, nelle stanze della Casa Bianca. Nelle intenzioni di Obama, il suo staff dovrà ricreare quello spirito di unità in una nazione lacerata da divisioni interne e guerra, richiamando alla memoria la storica presidenza Lincoln, che il senatore dell'Illinois spesso cita.

Il fulcro della nuova amministrazione ruota attorno ad Emanuel, Axelrod e Obama, tre vecchi amici della Chicago liberal. Un sicuro cambiamento rispetto all'attuale “corporate leadership” americana di Bush, Cheney e Rice. Le aspettative che la nuova Casa Bianca dovrà soddisfare sono però altissime. Il lavoro di Obama sarà difficile e rischioso ma, come egli stesso ripete sovente, “è proprio questo il momento per voler fare il Presidente.”

Un recente episodio curioso riguarda i contatti di Obama con i leader stranieri, a parte l'epiteto razzista rivoltogli da Berlusconi, che in America è percepito come il peggiore tra gli insulti. Per la prima volta dalla rivoluzione islamica del 1979, il presidente iraniano Ahmadinejad ha inviato una lettera di congratulazioni ad Obama. La cosa ha suscitato un certo imbarazzo nello staff. Alle domande dei cronisti, che gli chiedevano se avesse già risposto, Obama ha per prima cosa ribadito che “lo sviluppo di armi nucleari da parte dell'Iran è inaccettabile,” ma poi ha concluso che non c'è motivo di affrettare i tempi e rifletterà attentamente sulle prossime mosse diplomatiche. “E comunque,” ha ricordato Obama, “abbiamo un solo Presidente alla volta. Vorrei essere molto chiaro sul fatto che fino al 20 Gennaio non sarò io il Presidente.”


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