di Eugenio Roscini Vitali

Mentre l’Unione Europea condanna Pristina per la mancata tutela della minoranza serba, dall’altra parte del confine sono gli albanesi a pagare il prezzo della secessione del Kosovo e Metohija, costretti a vivere sotto la costante minaccia di un popolo arrabbiato che ha visto violare l’integrità territoriale e l’identità nazionale e che non ha accettato la decisone unilaterale imposta da Washington e Bruxelles. A denunciare la situazione è Human Right Watch, l’organizzazione internazionale per i diritti umani che in un report di 74 pagine parla di un clima di tensione e di violenza al quale non sanno, o non vogliono, far fronte neanche le autorità di Belgrado. Epicentro degli incidenti è la provincia autonoma di Vojvodina, dove tra febbraio e marzo sono state documentate decine di aggressioni portate dai gruppi ultranazionalisti alle abitazioni e alle attività commerciali gestite dalla minoranza albanese; un segnale di quanto in certi luoghi soffi ancora forte il vento d’intolleranza, un vento che neanche le prospettive europee posso placare. Nella relazione annuale presentata il 5 novembre scorso a Bruxelles, la Commissione europea ha posto l’accento sulle condizioni necessarie affinché la Serbia possa ottenere lo status di candidato ufficiale per l’adesione all’Unione: collaborazione al tribunale dell’Aja, riforme economiche, modifica del sistema giuridico. Lo studio parla inoltre di atteggiamento costruttivo nei riguardi del Kosovo, di rispetto per le minoranze etniche e di osservanza dei diritti umani. Di tono decisamente diverso è il report di Human Right Watch che documenta una serie di episodi di violenze rivolta sia contro gli albanesi che contro le altre minoranze: case ed esercizi commerciali colpiti dal lancio di sassi, incendi dolosi, muri tappezzati con scritte minacciose e gravi manifestazioni di intolleranza. A questo si aggiunge il comportamento delle forze dell’ordine che, malgrado le avvisaglie, non hanno mai svolto nessuna azione preventiva ma al contrario hanno lasciato che i responsabili rimanessero impuniti.

In Serbia la repressione contro le minoranze etniche non è un fatto nuovo: gli albanesi erano già stati attaccati nel 1999, durante la campagna aerea che l’Alleanza Atlantica scatenò contro la Repubblica Federale di Yugoslavia di Slobodan Milosevic. Nel marzo 2004 nuova ondata di violenza: albanesi, musulmani e rom subiscono la rabbia della popolazione slava che reagisce alle persecuzioni sofferte in Kosovo dai fratelli serbi. Anche in quel caso Belgrado ferma solo in parte la ferocia degli ultranazionalisti e i pochi colpevoli assicurati alla giustizia ricevono pene lievi. Nel 2008 le cose non cambiano e tra febbraio e marzo, in seguito alla dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, la provincia autonoma di Vojvodina diventa teatro di 190 incidenti, 77 dei quali nel capoluogo Novi Sad, 48 nella città di Sombor e 23 nella località di Zrenjanin. A differenza del 1999 e del 2004, quando vennero presi di mira i cittadini, questa volta sono colpite le abitazione e i negozi, danneggiate le finestre e le vetrine non solo con il lanci di pietre e mattoni ma anche con l’uso di molotov, come nel caso Sremska Mitrovica e Zrenjanin.

Fino ad ora le autorità di Belgrado hanno fatto poco per fermare l’intolleranza serba e in occasione della dichiarazione di indipendenza del Kosovo, quando la rabbia degli ultranazionalisti era palpabile, si sono addirittura dimostrate sin troppo superficiali. Basti pensare alla manifestazione di protesta autorizzata il 17 febbraio scorso a Novi Sad, una città di 260 mila abitanti dove convivono serbi (65,3%), yugoslavi (comunità che si identifica con l’ex Yugoslavia e che rappresenta il 12,4% della popolazione), ungheresi (7,6%), croati (3,3%), slovacchi (3,1%), montenegrini (2,3%) e numerose altre etnie (6%), tra cui rom ed albanesi (299 in tutto quelli sanciti nel 2003). A Zrenjanin la situazione non è poi tanto diversa: città di 80 mila abitanti a maggioranza serba (70,9%) dove la comunità albanese è rappresentata da 78 persone. Stessa cosa a Sombor, 100 albanesi per 52 mila abitanti, a Novi Becej, 14 su 14 mila, a Kikinda, 56 su 41 mila censiti, e a Subotica dove la maggioranza è rappresentata dalla comunità ungherese (34.99%) e su 100 mila abitanti i serbi rappresentano poco più del 25% mentre i rom sono l’1,17% e gli albanesi sono solo in 256.

Per la sua complessità del suo frastagliato mosaico etnico, la Vojvodina rappresenta un vero e proprio laboratorio, dove il rapporto tra stato, etnie e nazionalismo diventa particolarmente conflittuale. Qui le tensioni non coinvolgono solo la minoranza albanese: la comunità magiara che vive nella regione al confine con l’Ungheria ha sempre considerato l’autonomia degli ungheresi della Vojvodina come una soluzione interessante, un’autonomia sul modello kosovaro che l’Amministrazione sulle Minoranze Nazionali ha sempre negato, ritenendo i diritti di questi stessi gruppi etnici già ampiamente garantiti dalla legge. I mutamenti politici degli anni Novanta che hanno frantumato la Repubblica Federale di Yugoslava hanno influito profondamente nell’assetto sociale della Vojvodina, trasformando un’oasi di tolleranza in un centro di scontro etnico. Nei vari stadi delle Guerre balcaniche i rapporti tra serbi e le altre nazionalità sono andati progressivamente peggiorando e la regione ha subito una progressiva serbizzazione: migliaia i profughi serbi vittime della guerra che sono arrivati dalla Bosnia, dalla Krajina, dalla Slavonia e dal Kosovo; migliaia i croati gli albanesi, i rom e i magiari fuggiti, colpiti dall’estremismo e dalla violenza.

Secondo Wanda Troszczynska-van Genderen, ricercatrice per Human Rights Watch nei Balcani, è ora che il governo serbo agisca contro questo tipo di crimini e le forze dell’ordine s’impegnino ad intervenire prima ancora che simili avvenimenti possano accadere di nuovo. Non è difficile capire che la Vojvodina rappresenti ancora oggi un contesto esplosivo dove la minaccia per i diritti delle minoranze è in costante aumento, così come è evidente che è assolutamente necessario fermare chi fomenta i conflitti etnici e sociali. La mancanza di misure adeguate a contrastare questo fenomeno rimane un fatto grave che potrebbe minare la stessa adesione del paese balcanico all’Unione Europea.

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